Ma gli editori di notizie americani parlano di “furto di contenuti”, un’accusa che potrebbe avere conseguenze devastanti per il settore del giornalismo.
La nuova "ai mode" di Google scatena le proteste degli editori di notizie negli USA. Accusano l'azienda di "furto legalizzato" per l'uso dei loro contenuti nei riassunti AI, causando un drastico calo del traffico ai siti. La News/Media Alliance parla di ricatto e chiede l'intervento delle autorità antitrust. Google si difende, mentre la battaglia legale si intensifica.
Google e la sua AI mode
Google ha tirato fuori dal cilindro la sua nuova “AI Mode” per le ricerche e, come c’era da aspettarsi, è scoppiato un mezzo putiferio. Gli editori di notizie americani, quelli che con i contenuti ci campano, non l’hanno presa affatto bene. Parlano senza mezzi termini di furto di contenuti, un giochetto che, a detta loro, rischia di mettere in ginocchio l’intero settore del giornalismo.
Il nocciolo della questione? Questa intelligenza artificiale di Google sforna risposte belle e pronte usando il lavoro altrui, bypassando di netto i link che portano traffico (e soldini) ai siti degli editori. Praticamente, ti dà la pappa pronta senza farti passare dalla cucina.
E tu ti chiederai: ma è davvero così semplice la faccenda?
La verità è che dietro questa “innovazione” si nasconde una dinamica piuttosto scomoda. La News/Media Alliance, un colosso che rappresenta oltre 2.200 testate, tra cui nomi come Condé Nast e Vox Media, non usa giri di parole. Sostengono che i riassunti generati dall’AI non sono altro che un riciclo bello e buono del loro giornalismo originale.
Danielle Coffey, la CEO dell’Alliance, l’ha messa giù dura: “I link erano l’ultima cosa che ci dava un ritorno. Ora Google prende e basta, senza dare nulla in cambio. Questa è la definizione di furto”.
E salta fuori pure che, secondo documenti interni emersi durante il processo antitrust contro Google (ne parla newsbytesapp.com), l’azienda avrebbe bellamente deciso di non chiedere il permesso a nessuno, mettendo gli editori davanti a un aut aut: o ti fai usare dall’AI, o sparisci quasi del tutto dalla ricerca. Un bel ricattino, non trovi?
Ma Google, ovviamente, ha la sua versione dei fatti.
La “complessità” secondo Google e l’impatto reale che nessuno ti dice
Google, dal canto suo, tramite Liz Reid, la capa della Ricerca, si difende dicendo che gestire eccezioni per ogni singola funzione creerebbe una “complessità enorme”. Una scusa che, diciamocelo, suona un po’ deboluccia quando hai le risorse di Google, non credi?
Questa AI Mode, lanciata in pompa magna negli Stati Uniti il 22 maggio 2025, funziona con una tecnologia chiamata RAG, che in pratica “legge” i contenuti indicizzati e ne tira fuori un sunto. Certo, qualche link lo mostra ancora, ma gli editori che hanno partecipato ai test in beta hanno visto il loro traffico crollare anche del 40%.
E meno traffico, per chi vive di pubblicità online, significa meno soldi, meno risorse, meno giornalismo di qualità.
In pratica, Google ti offre un riassunto, magari ben fatto, ma ti toglie la possibilità di approfondire, di leggere l’articolo originale, di supportare chi quel contenuto l’ha creato con fatica.
È un po’ come se ti raccontassero la trama di un libro meraviglioso, ma ti impedissero di comprarlo.
A lungo andare, chi li scriverà più i libri?
E questa non è una preoccupazione da poco, visto che la battaglia si sta spostando anche nelle aule di tribunale.
Quando il “progresso” finisce sotto la lente di avvocati e autorità
Questa non è certo la prima scaramuccia.
Già nel 2023, con il lancio della Search Generative Experience (SGE), l’Alliance aveva chiesto ai regolatori di fermare tutto, come si legge in un comunicato della stessa News/Media Alliance.
Ora, con l’arrivo delle AI Overviews, hanno nuovamente bussato alla porta della FTC e del DOJ (il Dipartimento di Giustizia americano), accusando Google di “affamare gli editori di traffico”.
E c’è di più: in un amicus brief presentato nel caso United States v. Google a maggio 2024 (documento disponibile sempre sul sito della News/Media Alliance), si sottolinea come la posizione dominante di Google nella ricerca le dia un vantaggio sleale nell’usare queste tecnologie RAG, mentre i concorrenti devono sudarsi ogni accordo per accedere ai contenuti.
Insomma, la solita storia del pesce grande che mangia i piccoli, ma con una spolverata di intelligenza artificiale per rendere il tutto più “moderno”.
La domanda sorge spontanea: questo modello è sostenibile o stiamo solo assistendo all’ennesima mossa di una Big Tech per ridisegnare le regole del gioco a proprio vantaggio, lasciando per strada chi crea valore reale?
E i piccoli editori, quelli che non hanno la forza di Condé Nast, che fine faranno in questo scenario?
Staremo a vedere se le autorità avranno il coraggio di intervenire seriamente, o se prevarrà ancora una volta la legge del più forte.