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Contattaci ora →Tra notti insonni e routine per la nanna, il CEO di OpenAI si affida all’IA per crescere il figlio, aprendo un dibattito sui rischi e benefici di un’infanzia “assistita” dagli algoritmi.
Sam Altman, CEO di OpenAI e neopapà, si affida "costantemente" a ChatGPT per consigli sul figlio, dalle routine notturne allo sviluppo. Crede che i figli saranno più capaci grazie all'IA, ma la scelta solleva dubbi su dipendenza tecnologica e rischi di "allucinazioni" negli algoritmi. Esperti mettono in guardia sull'impatto umano e i bias.
L’oracolo digitale di casa Altman: quando il CEO di OpenAI affida il figlio a ChatGPT
Sam Altman, il gran capo di OpenAI, quello di ChatGPT per intenderci, è diventato papà da poco.
E fin qui, congratulazioni.
La notizia che però fa un po’ strano è come sta affrontando le notti insonni e i dubbi da neogenitore. Invece di chiamare la mamma o sfogliare un buon vecchio manuale, Altman, nella prima puntata del podcast targato OpenAI, ha confessato di rivolgersi “costantemente” al suo ChatGPT, per chiedere lumi sul comportamento del neonato, sulle tappe di sviluppo, persino sulle routine per la nanna.
Ora, che il creatore di un’intelligenza artificiale la usi, ci sta.
Ma che la elegga a consulente principale per la crescita di un figlio, beh, qualche domanda se la fa venire.
Lui, dal canto suo, non si scompone, anzi, rilancia con una visione del futuro in cui i suoi pargoli, pur “non essendo mai più intelligenti dell’IA”, diventeranno “molto più capaci” proprio grazie a questi strumenti.
Interessante, vero?
Però, viene da chiedersi:
siamo davvero sicuri che delegare le risposte ai perché più delicati dei primi mesi di vita a un algoritmo sia una medaglia da appuntarsi al petto?
La scommessa di Altman: figli “potenziati” o semplicemente più dipendenti dall’IA?
Quindi, ricapitolando: il papà di ChatGPT usa ChatGPT per fare il papà (nonostante la stessa OpenAI metta in guardia sulla questione minori e IA).
E non solo per le emergenze notturne, ma come vero e proprio faro nella crescita del piccolo, convinto che questa simbiosi uomo-macchina renderà i suoi figli delle specie di “super-umani” digitali. Secondo TechCrunch, Altman è convinto che le future generazioni non competeranno con l’intelligenza artificiale, ma la domineranno, raggiungendo traguardi impensabili.
Un’affermazione che, detta da lui, suona quasi come una profezia autoavverante.
D’altronde, se il CEO di una delle aziende tech più influenti al mondo ti dice che tuo figlio sarà più performante grazie all’IA, e te lo dimostra usandola lui stesso fin dai primi vagiti, come fai a non crederci? O forse, come fai a non sentire un leggero brivido lungo la schiena?
Perché, diciamocelo, questa visione di un’infanzia assistita dall’intelligenza artificiale, per quanto possa sembrarci efficiente, apre scenari che meriterebbero una riflessione un tantino più approfondita. Stiamo allevando geni potenziati o stiamo semplicemente abituando le nuove generazioni a una dipendenza tecnologica che inizia dalla culla, rendendo le Big Tech ancora più centrali nelle nostre vite?
E mentre Altman si gode la sua paternità 2.0, cosa ne pensano quelli che i bambini li studiano per mestiere e non per algoritmo?
Tra l’entusiasmo del “tech-papà” e i dubbi degli esperti: l’IA genitore è davvero una buona idea?
Come puoi immaginare, la notizia di Sam Altman che si affida a ChatGPT per crescere suo figlio ha scatenato un bel dibattito. Da una parte c’è chi la butta sul ridere, visualizzando il CEO che chiede all’IA come cambiare un pannolino. Dall’altra, però, ci sono voci molto più preoccupate, e non sono quelle dei soliti luddisti.
Esperti di etica dell’IA e di sviluppo infantile, come la Dottoressa Joanna Berzowska citata su opentools.ai, mettono in guardia da rischi mica da ridere. Primo fra tutti, la possibilità che queste IA, per quanto avanzate, sparino delle “allucinazioni”, ovvero informazioni completamente inventate ma presentate come verità assolute.
Immaginati un consiglio sbagliato sulla salute di un neonato: le conseguenze potrebbero essere serie.
E poi c’è la questione dell’interazione umana: affidarsi a un chatbot per capire i bisogni di un bambino non rischia di impoverire quel legame unico e istintivo tra genitore e figlio?
Senza contare che queste IA imparano da dati che possono contenere bias e stereotipi, e finire per rifilarceli belli e pronti anche quando chiediamo consigli su come crescere i nostri figli.
Insomma, la comodità di avere un “esperto” a portata di chat 24/7 è innegabile, soprattutto per un neogenitore stressato. Ma quando questo “esperto” è un algoritmo, e quando in gioco c’è il benessere e lo sviluppo di un bambino, forse è il caso di andarci con i piedi di piombo.
Le scelte di una figura come Altman, che non è un papà qualunque ma il volto di una rivoluzione tecnologica, pesano come macigni e rischiano di sdoganare pratiche su cui servirebbe, come minimo, un confronto aperto e senza sconti.
Servono davvero “nuovi limiti”, come dicono alcuni, per evitare che la tecnologia, invece di aiutarci, finisca per sostituirsi a noi anche nel più umano dei compiti?
Assurdo. Spero almeno controlli le risposte di ChatGPT con un pediatra vero!
Francesco Pellegrini, speriamo lo faccia! Altrimenti povero bambino. Che ansia.
Figurati, tra un po’ gli farà fare i compiti a ChatGPT. Che tristezza.
Carlo Ferri, già lo fa. E poi si lamenterà che i figli non pensano.
Andrea De Luca, esatto. Mi immagino già il figlio che dice “ChatGPT mi ha detto così!” senza spirito critico. Speriamo si limiti ai consigli sulla nanna.