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Contattaci ora →Tra costi elevati e la necessità di raggiungere la redditività, l’azienda potrebbe seguire le orme di Instagram e sfruttare i dati degli utenti per la pubblicità mirata.
Sam Altman, CEO di OpenAI, allude a possibili piani pubblicitari per ChatGPT, nonostante le precedenti reticenze. Di fronte a spese operative ingenti, il modello di monetizzazione tramite annunci mirati, anche grazie al nuovo ChatGPT Pulse, emerge come soluzione per la redditività, segnando un'evoluzione significativa dalla missione originaria no-profit dell'azienda.
I conti non tornano: la pubblicità come ancora di salvezza?
Diciamocelo chiaro e tondo: far girare un colosso come OpenAI costa una fortuna. I numeri parlano di un fatturato che si aggira intorno ai 4 miliardi di dollari, a fronte però di spese operative che superano gli 8 miliardi. Una voragine che, secondo gli analisti, non permetterà di raggiungere la redditività prima del 2029.
In questo contesto, le parole di Altman assumono un peso diverso. La sua ammirazione per il modello pubblicitario di Instagram, descritto come qualcosa che lui stesso “apprezza”, non è un commento casuale, ma un indizio bello e buono sulla direzione che si sta valutando. Come descritto da The Verge, l’azienda sta esplorando attivamente questa possibilità, anche se per ora preferisce non confermarla.
E guarda caso, OpenAI ha appena sfornato lo strumento perfetto per tappare questa falla finanziaria.
ChatGPT Pulse: l’assistente personale che ti conosce (e ti vende) meglio di chiunque altro
ChatGPT Pulse non è un semplice aggiornamento. È il tentativo più ambizioso di OpenAI di entrare nella tua routine quotidiana.
Immagina un assistente che di notte analizza le tue conversazioni, il tuo calendario, le tue app collegate e al mattino ti serve un briefing su misura: notizie che ti interessano, consigli per la giornata, riassunti di argomenti che stai studiando.
Un servizio potentissimo, non c’è dubbio.
Ma è anche il sogno di ogni inserzionista. Un sistema che ti conosce così a fondo diventa il veicolo ideale per pubblicità mirate con una precisione chirurgica. Gli esperti di marketing lo hanno già capito e parlano di “modo ideale per integrare gli annunci”, con schede sponsorizzate che si mescolano in modo quasi naturale ai contenuti organici.
Ma come si concilia tutto questo con la figura di Sam Altman e la missione originale della sua creatura?
Dalla missione no-profit al modello Instagram: la metamorfosi di OpenAI
Fa un certo effetto pensare che OpenAI sia nata nel 2015 come organizzazione no-profit, con l’obiettivo quasi utopico di sviluppare un’intelligenza artificiale a beneficio di tutta l’umanità, per evitare che finisse nelle mani di poche, potentissime corporation.
Oggi, quella stessa organizzazione, guidata da Altman, valuta di adottare il modello di business che più di ogni altro ha arricchito quelle stesse corporation: la monetizzazione dei dati personali tramite la pubblicità.
Il passaggio a un modello “capped-profit” nel 2019 era stato solo il primo passo; l’introduzione dell’advertising segnerebbe la trasformazione definitiva.
Una metamorfosi che solleva una domanda scomoda: l’intelligenza artificiale che doveva servire l’umanità, finirà per servire gli inserzionisti?
La questione, quindi, non è più se vedremo la pubblicità su ChatGPT, ma quanto saremo disposti a pagare, in termini di dati e attenzione, per avere un’intelligenza artificiale che lavora per noi.
O forse, che lavora per qualcun altro.
La necessità di coprire i costi operativi è comprensibile. Spero solo che questa evoluzione non comprometta l’utilità e l’accessibilità di ChatGPT per tutti.
Siamo alle solite: i grandi ideali si infrangono contro la realtà economica. Ciò che conta è far quadrare i conti, no?
Ah, quindi il “futuro dell’umanità” ora ha bisogno di un salvadanaio? Chissà se i dati saranno anonimizzati o se diventeremo tutti “prodotti”.
La necessità di coprire costi enormi porta a scelte obbligate. Sebbene la visione originale fosse diversa, il mercato impone un cambio di rotta. Vedremo se questa svolta pubblicitaria comprometterà l’esperienza utente.
Capisco la necessità di coprire i costi, ma spero che mantengano un equilibrio tra profitto e l’esperienza utente.
Ma figuriamoci! Dalla nobile missione all’odore dei soldi, che sorpresa. Ormai è palese: l’algoritmo divora dati, noi paghiamo con la nostra privacy. Finchè non ci renderemo conto che siamo solo merce, continueranno a venderci.
Altman fa bene a pensare a come coprire le spese. Il passaggio da no-profit a business è inevitabile quando i conti non quadran. Ma la privacy degli utenti vale qualcosa, no?
Mah, che novità. Il nobile intento del no-profit che finisce per inseguire i dollari è un copione già visto. Sembra che anche le grandi idee tecnologiche debbano arrendersi ai bilanci, mica campiamo di aria fritta. Chissà poi cosa ne penseranno quelli che si fidano dei loro dati.
Ma davvero? Passare da “rivoluzione no-profit” a “pubblicità come al solito”? Sembra che anche le grandi idee tecnologiche debbano piegarsi alla realtà dei conti. Mi chiedo se ci sia ancora spazio per la pura ricerca o se tutto debba trasformarsi in un altro sito pieno di banner.
Ma certo, altro che trasformazione: è solo la solita storia del sogno no-profit che finisce in business. Cosa ci si aspettava?