Il verdetto di Ahrefs: la brand reputation batte la SEO tecnica nelle AI Overviews

Anita Innocenti

Le regole del digitale stanno cambiando.

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Tra brand awareness e AI: la SEO tradizionale è davvero obsoleta o si sta solo trasformando in un gioco per pochi eletti?

Uno studio di Ahrefs su 75.000 brand evidenzia che per apparire nelle AI Overviews di Google contano più le menzioni del brand e gli anchor text brandizzati della SEO tecnica tradizionale. Molti siti ottimizzati, anche con alta DA, non compaiono. Intanto, i click organici calano dove le AI Overviews sono presenti.

Il verdetto di Ahrefs: la tua reputazione online pesa più dei tecnicismi SEO. O almeno, così ci dicono.

Ti sei spaccato la schiena per anni a curare ogni singolo dettaglio tecnico del tuo sito, hai ottimizzato tag, meta description, velocità di caricamento, hai costruito backlink di qualità certosina, e ora?

Ora arriva Ahrefs, uno dei colossi degli strumenti SEO, e con uno studio bello corposo su 75.000 brand ci dice che, quando si tratta di finire nelle grazie delle AI Overviews di Google, quello che conta davvero sono le menzioni del tuo brand sparse per il web e gli anchor text brandizzati.

Pare che la correlazione più forte (un coefficiente di Spearman di 0.664, per i più nerd) sia proprio con le menzioni del brand.

E la cosa che fa riflettere è che un buon 26% dei brand analizzati, pur con una Domain Authority di tutto rispetto (sopra il 40, mica noccioline) e parole chiave che macinano ricerche, nelle AI Overviews non ci compare nemmeno per sbaglio.

Una bella doccia fredda per chi pensava che bastasse avere un sito tecnicamente impeccabile, non trovi?

La domanda sorge spontanea: ma allora tutta la fatica fatta finora è da buttare?

E se la visibilità organica tradizionale inizia a scricchiolare sotto il peso di queste nuove “risposte intelligenti”, cosa ci resta in mano?

E il bello è che questo scenario, diciamocelo, sembra quasi disegnato per favorire chi è già grande e grosso, chi ha già un nome che risuona ovunque.

Ma per te, che magari hai un’attività più di nicchia o stai ancora costruendo la tua autorevolezza, che significa tutto ciò?

Siamo sicuri che questa sia l’evoluzione naturale della ricerca o c’è qualcos’altro sotto?

Un mare di contenuti AI e click che svaniscono: benvenuto nel nuovo Far West digitale.

Come se non bastasse, il contesto in cui ci muoviamo è sempre più affollato.

Pensa che, secondo un’altra analisi di Ahrefs, ben il 74,2% delle nuove pagine web sembra contenere contenuti generati dall’intelligenza artificiale. Una vera e propria marea montante, dove distinguersi diventa un’impresa titanica.

E mentre tutti si affannano a produrre contenuti (spesso con lo stampino, ammettiamolo), c’è un altro dato che dovrebbe farci drizzare le antenne: i click sui risultati organici tradizionali, quelli per cui hai sudato sette camicie, crollano.

Addirittura un -34,5% per le parole chiave dove compaiono le AI Overviews, come evidenziato da Ahrefs in un loro studio sull’impatto sui click.

Insomma, meno visite dirette al tuo sito.

Bello, vero?

Certo, poi senti “esperti” come Kevin Indig di Seer Interactive che, come riportato sempre da Ahrefs, parla di un “boost del 160% nella probabilità di traffico AI” per chi combina contenuti approfonditi e ottimizzazione strategica delle entità. Parole affascinanti, non c’è dubbio.

Ma viene da chiedersi:

Questa “ottimizzazione strategica delle entità” è davvero alla portata di tutti o è l’ennesimo gergo tecnico che nasconde strategie complesse e costose?

E questo “traffico AI” compenserà mai la perdita di click diretti e consapevoli?

Senza contare che, sempre secondo questi dati, ci sono disparità geografiche e settoriali notevoli: i brand USA sembrano avere la strada spianata rispetto a quelli europei o indiani, e il settore Business/Industrial pare godere di vantaggi doppi rispetto a Salute o Educazione.

Coincidenze?

O c’è una regia occulta che favorisce determinati mercati e settori, magari quelli più redditizi per chi controlla l’algoritmo?

La sensazione è quella di un campo di battaglia dove le regole cambiano continuamente, e non sempre in modo trasparente.

E mentre i colossi come Google sembrano voler riscrivere le dinamiche del traffico web, la domanda è:

C’è ancora margine per chi non dispone di budget milionari o di un brand già affermato a livello globale?

O stiamo assistendo a una progressiva “chiusura” del web?

Tra “consigli d’oro” e la dura realtà: chi tira davvero le fila?

Di fronte a questo scenario, fioccano ovviamente i “consigli degli esperti”. Bernard Huang, ad esempio, citato nel blog di Ahrefs sull’ottimizzazione per LLM, sottolinea l’importanza del “entity mapping” e dell’uso di strumenti come la Natural Language API di Google (sì, sempre Lui) per capire come il tuo brand viene associato ai vari argomenti.

Ahrefs stessa, non a caso, propone il suo tool Brand Radar per tracciare le menzioni e misurare la “topic ownership”, come suggerito in un loro articolo sulla misurazione della brand awareness. Strumenti e strategie che, per carità, avranno la loro utilità.

Ma sorge un dubbio: non è che stiamo correndo dietro a soluzioni proposte proprio da chi, in un certo senso, contribuisce a creare il “problema”? Un po’ come chi prima ti vende il lucchetto e poi, guarda caso, anche la chiave universale.

Tim Soulo, il CMO di Ahrefs, afferma che “il nuovo campo di battaglia non sono i meta tag del tuo sito, ma la frequenza e la naturalezza con cui il tuo brand appare nelle conversazioni contestuali sul web”.

Frase a effetto, non c’è che dire. Ma tradotta per noi comuni mortali, significa che devi essere ovunque, sempre, e possibilmente citato nel modo giusto. Un compito improbo, soprattutto se sei una piccola o media impresa. Si parla di un’evoluzione simile al passaggio dal keyword stuffing ai principi E-E-A-T.

Ma è davvero un progresso verso una maggiore qualità e trasparenza, o semplicemente un modo più sofisticato per i motori di ricerca di premiare chi ha già una forte presenza e autorevolezza, rendendo la scalata ancora più difficile per gli altri?

La verità è che, mentre ci dicono di puntare sulla “presenza di marca nell’ecosistema”, la sensazione è che questo ecosistema sia sempre più controllato da poche, grandissime entità.

E tu, imprenditore o professionista, ti ritrovi a dover navigare in queste acque agitate, cercando di capire se questi “consigli” siano davvero per il tuo bene o se, alla fine della fiera, servano più a chi te li dà. Forse, più che inseguire l’ultima metrica o l’ultimo tool, è il momento di chiederci che tipo di web vogliamo e se questo continuo spostamento dei pali della porta sia davvero sostenibile per tutti.

Tu che ne pensi?

Anita Innocenti

Sono una copywriter appassionata di search marketing. Scrivo testi pensati per farsi trovare, ma soprattutto per farsi scegliere. Le parole sono il mio strumento per trasformare ricerche in risultati.

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