Il crollo di Cloudflare scatena l’effetto domino nel web

Anita Innocenti

Le regole del digitale stanno cambiando.

O sei visibile o sei fuori. Noi ti aiutiamo a raggiungere i clienti giusti — quando ti stanno cercando.

Contattaci ora →

Un guasto che ha messo in ginocchio siti come X, ChatGPT, Canva e Spotify, sollevando interrogativi sulle possibili penalizzazioni da parte di Google e sull’affidabilità dei dati di analisi.

Il 18 novembre 2025, Cloudflare ha causato un blackout globale, paralizzando parte del web e generando panico per gli errori 5xx. Contrariamente ai timori, Google ha rallentato la scansione senza penalizzare i siti. Il vero danno è stata la perdita di dati di tracciamento, falsando i report. L'evento ha sottolineato la fragilità del web e la pericolosa dipendenza da pochi giganti tecnologici.

Diciamocelo chiaramente: ieri, 18 novembre 2025, internet ha avuto un mancamento. E non parlo di un piccolo singhiozzo, ma di un vero e proprio arresto cardiaco per una fetta enorme del web.

Se hai provato ad accedere a X (l’ex Twitter), a interrogare ChatGPT o ad ascoltare musica su Spotify, ti sei trovato davanti a un muro. Ma il problema non erano i tuoi device.

Il colpevole?

Cloudflare.

Come riportato in un’analisi dettagliata su Digitally Unique, un disservizio massiccio ha mandato offline migliaia di siti web proprio durante l’orario di lavoro, facendo comparire ovunque quel fastidioso codice di stato che nessun professionista SEO vorrebbe mai vedere: errore 500 (o la famiglia dei 5xx).

La cosa ironica, se così vogliamo chiamarla, è che il disservizio ha colpito anche gli strumenti che usiamo per lavorare. Piattaforme come Ahrefs sono andate in tilt, lasciando agenzie e consulenti completamente ciechi, impossibilitati a fare audit o controllare i posizionamenti dei clienti.

La situazione si è risolta a metà pomeriggio, ma la domanda che ho sentito rimbalzare ovunque è stata una sola:

“Google mi penalizzerà per questo?”

E qui serve fare chiarezza, perché la paura spesso fa vedere mostri che non esistono.

Il fantasma dell’errore 5xx e la risposta di Google

Quando il server risponde con un errore 5xx, sta dicendo a Googlebot: “Ehi, ho un problema interno, ripassa più tardi”. Molti pensano che questo porti a una deindicizzazione istantanea, ma la realtà è ben diversa. I motori di ricerca non sono stupidi; sanno distinguere un sito rotto da un problema infrastrutturale globale.

Per capire come ragiona Google in questi casi, ci viene in aiuto Search Engine Journal che, riprendendo le parole di John Mueller, ha spiegato l’approccio tecnico del motore di ricerca: di fronte a picchi di errori 5xx, Google semplicemente rallenta la scansione.

Non ti cancella dall’indice, non ti butta fuori dalle SERP.

Si mette in attesa.

Il crawling diminuisce temporaneamente per non sovraccaricare un server già in difficoltà e poi, una volta che il segnale torna stabile (codice 200), riprende il ritmo abituale.

È come se Googlebot tirasse il freno a mano aspettando che la nebbia si diradi. Certo, se il blocco durasse giorni intere pagine potrebbero iniziare a sparire, ma per un disservizio di poche ore l’impatto sul posizionamento è praticamente nullo.

Quindi, se hai visto i grafici delle scansioni impazzire, respira: è il sistema che funziona esattamente come dovrebbe.

Ma se lato SEO possiamo tirare un sospiro di sollievo, c’è un altro lato della medaglia che è molto più insidioso e riguarda i dati che non hai visto.

Quando i dati scompaiono (e perché i grafici mentono)

Il vero danno di ieri non è stato tanto nella visibilità organica, quanto nell’affidabilità dei numeri che guardiamo ogni giorno. Cloudflare non gestisce solo le pagine , ma fa passare attraverso i suoi tubi anche script, tag di tracciamento e banner dei consensi.

Che succede se il sito è online (magari grazie alla cache) ma lo script di Google Analytics 4 o il Tag Manager viene bloccato a monte?

Semplice: l’utente naviga, ma per te non esiste.

I report di ieri potrebbero mostrarti un crollo verticale del traffico o delle conversioni che però non è reale. È solo un buco nero nei dati. Se stai analizzando le performance di una campagna PPC o valutando il ROI di ieri, tieni a mente che quei numeri sono “sporchi”.

Annotare questa data nei tuoi report è un obbligo morale verso il cliente, perché fra sei mesi, guardando indietro, qualcuno potrebbe chiedersi perché il 18 novembre le vendite sembravano ferme mentre i costi pubblicitari correvano.

Non è il mercato che è crollato, è il “termometro” che si è rotto.

E questo ci porta a riflettere su quanto siamo diventati dipendenti da pochi, enormi attori.

La fragilità del gigante unico

Siamo onesti: ci siamo messi in una posizione scomoda.

Affidiamo la sicurezza, la velocità e la distribuzione dei contenuti a un numero ristrettissimo di aziende. Quando Cloudflare starnutisce, mezzo internet prende la polmonite.

Un dato interessante citato da ALM Corp dovrebbe far riflettere chiunque abbia un business online: l’88% degli utenti dichiara di essere meno propenso a tornare su un sito dopo una brutta esperienza d’uso. Ieri, per molte aziende, quella “brutta esperienza” non è dipesa da un loro errore, ma dal fallimento di un fornitore terzo che, di fatto, tiene le chiavi di casa.

Ci vendono la centralizzazione come sicurezza, come efficienza. Ma quando il sistema centrale fallisce, il danno d’immagine ricade sul brand finale, non sull’infrastruttura.

Il cliente arrabbiato perché non riesce a completare l’acquisto non se la prende con Cloudflare; se la prende con te.

E forse è il caso di iniziare a chiedersi se questa dipendenza totale da singoli punti di fallimento sia davvero la strada giusta per costruire un business solido nel 2025.

Anita Innocenti

Sono una copywriter appassionata di search marketing. Scrivo testi pensati per farsi trovare, ma soprattutto per farsi scegliere. Le parole sono il mio strumento per trasformare ricerche in risultati.

9 commenti su “Il crollo di Cloudflare scatena l’effetto domino nel web”

  1. Questa narrazione di “fragilità” è la solita commedia per nascondere la nostra cieca sottomissione a pochi *gatekeeper* tecnologici; perdemmo i dati, mica la faccia, no? 🧐 Mi chiedo quanto ci costerà questa “fiducia” nel cloud altrui, visto che la mia agenzia vive di metriche non alterate. 😠

  2. L’effetto domino rivela la nostra atavica ingenuità: affidare l’infrastruttura a pochi nodi centrali è un suicidio analitico programmato. Siamo naufraghi tecnologici.

  3. Blackout. Errore 5xx. Dipendenza da ‘sta gente. Google? Non penalizza. Peccato per i dati falsati. Analisi? Fuffa. Sempre la stessa storia: fragilità mascherata da progresso. Siamo a posto, eh?

  4. Renato Graziani

    Il blackout Cloudflare. 😔 Dipendenza da pochi nomi. Dati persi. Fragilità del web emerge. 💔 Quanto ancora resisterà questa struttura?

    1. Ah, Renato, la tua malinconia da *mea culpa* digitale è commovente, se non fosse che l’aria puzza di incompetenza mascherata da resilienza. Perdere i dati di tracciamento, dici? Geniale. Significa che i miei report fasulli di ieri, quelli che mi servivano per giustificare i miei aumenti di tariffa, ora sono magicamente “compromessi”. Bene. La paranoia paga, come sempre. Quando questa struttura cederà del tutto, spero almeno che il crollo sia ben documentato sui server di qualcun altro.

  5. Questa carrellata di errori 5xx dimostra quanto siamo burattini nelle mani di pochi oligarchi digitali; i dati persi sono il prezzo della nostra ingenua fiducia.

  6. Fragilità palpabile. 😥 Questi giganti, pilastri del nostro digitale, cedono. Perdita dati tracciamento. Un velo di illusione sollevato. Siamo tutti sulla stessa barca, navigando verso… cosa? ⚓️

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ricevi i migliori aggiornamenti di settore