Tra segnali di qualità “fatti a mano”, punteggi statici e dati Chrome, ecco come Google decide chi premiare e chi penalizzare nelle SERP, tra rivelazioni e ombre
Una deposizione di un ingegnere Google nella causa antitrust ha rivelato l'esistenza di segnali di ranking 'fatti a mano', un punteggio di qualità statico e, soprattutto, un segnale di popolarità basato sui dati di navigazione raccolti tramite Chrome. La rivelazione, giunta nel pieno del processo antitrust, solleva dubbi sulla trasparenza e l'equità del mercato digitale, riaccendendo vecchie polemiche sull'uso dei dati del browser più diffuso al mondo.
Google e i suoi segreti: cosa bolle davvero in pentola dopo la deposizione shock?
La notizia è arrivata quasi come un fulmine a ciel sereno, o forse dovremmo dire che era nell’aria da un po’. Una deposizione di un ingegnere di Google, resa pubblica nel bel mezzo della causa antitrust che vede coinvolto il colosso di Mountain View e il Dipartimento di Giustizia statunitense, sta facendo tremare i polsi a più di un addetto ai lavori.
E come dargli torto?
Finalmente si alza un velo – seppur ancora parzialmente oscurato, diciamocelo – su come Google decide chi far salire sull’Olimpo dei risultati di ricerca e chi, invece, lasciare nelle retrovie.
Parliamo di segnali di qualità “fatti a mano” dagli ingegneri, di un misterioso punteggio di qualità statica assegnato alle pagine e, ciliegina sulla torta, di un segnale di popolarità che pescherebbe a piene mani dai dati raccolti tramite il browser Chrome.
Ti suona familiare?
Forse sì, ma ora c’è una conferma che pesa come un macigno, come riportato da Search Engine Journal.
La domanda sorge spontanea: sarà davvero tutta la verità o soltanto un piccolo assaggio di quello che si nasconde dietro le quinte?
E mentre cerchiamo di capirci qualcosa di più,
ti sei mai chiesto come funzionano esattamente questi meccanismi che sembrano così arcani?
Dentro il “cervellone” di Google: segnali artigianali e l’ombra inquietante di Chrome
Proviamo a fare un po’ di chiarezza, per quanto possibile.
Immagina gli ingegneri di Google come degli artigiani hi-tech che modellano algoritmi complessi. Per farlo, si basano su una serie di elementi: le valutazioni fornite dai quality rater umani (persone in carne ed ossa che giudicano la qualità dei siti), l’analisi dettagliata di come tu e io interagiamo con i risultati di ricerca (sì, i nostri click contano, eccome se contano!) e, ovviamente, sofisticati modelli matematici per stabilire quanto un sito sia pertinente e affidabile per una data ricerca.
Tutto molto interessante, se non fosse che poi, quasi di soppiatto, spunta questo “segnale di popolarità” che attingerebbe direttamente ai dati di navigazione raccolti da Chrome.
Ora, fermiamoci un attimo a riflettere: Google, che possiede il browser più utilizzato al mondo, usa i dati raccolti da quello stesso browser per determinare quanto un sito sia “popolare” e, di conseguenza, influenzarne il ranking.
Non ti sembra che ci sia qualcosa che non torna?
Loro, ovviamente, si affrettano a dire che tutto ciò serve a “migliorare l’esperienza utente”, ma il sospetto che si tratti di un vantaggio competitivo non proprio cristallino è forte, una preoccupazione già evidenziata in passato, come descritto da TopMostAds.
E che dire dei famosi documenti interni, quelli trapelati tempo fa che avevano già fatto tanto discutere? L’ingegnere, nella sua deposizione, li menziona, certo, ma precisa subito che mancano i “dettagli implementativi” cruciali, come le “curve e le soglie” specifiche.
In pratica, è come avere la lista degli ingredienti di una ricetta segreta, ma non le dosi né il procedimento.
Comodo, no?
Ma se questi sono i segnali che Google dice di usare, come la prende chi, come te, ogni giorno sgomita per guadagnarsi un posto al sole nella SERP, cercando di decifrare mosse spesso avvolte nel mistero?
Voci dal fronte: tra chi invoca trasparenza e chi fiuta l’inganno
Le reazioni del settore, come puoi ben immaginare, non si sono fatte attendere e sono, come spesso accade, piuttosto variegate.
C’è chi, come l’analista SEO Martinibuster, citato nel report di Search Engine Journal, vede nelle recenti fughe di notizie sull’API di Chrome la conferma che si tratti di veri e propri fattori di ranking, e non di semplici strumenti per sviluppatori. Tuttavia, lo stesso Martinibuster ammette con una certa dose di realismo che, senza conoscere i modelli statistici sottostanti, tentare di replicare la logica di Google è un po’ come cercare di vincere alla lotteria sperando in un colpo di fortuna.
Sui forum di settore, come il noto WebmasterWorld, il dibattito è rovente: alcuni sembrano quasi tirare un sospiro di sollievo, forse illudendosi che questa sia l’alba di una nuova era di trasparenza, soprattutto dopo le scosse telluriche provocate dall’aggiornamento core di marzo 2025, quello che ha mandato nel panico non pochi proprietari di siti.
Altri, invece, sono molto più scettici e interpretano queste “rivelazioni” più come una mossa strategica, una sorta di contentino gettato in pasto al pubblico mentre Google è sotto la lente d’ingrandimento del processo antitrust.
Insomma, la solita commedia all’italiana, o meglio, alla californiana?
E mentre esperti e non si scambiano opinioni, proviamo a capire quali potrebbero essere le reali conseguenze di queste “soffiate” e come si collocano nel complesso puzzle delle strategie, spesso imperscrutabili, del gigante di Mountain View.
Dietro le quinte del ranking: aggiornamenti, cause legali e la solita, vecchia difesa
Questa deposizione, non ci piove, non arriva come un fulmine a ciel sereno, ma si inserisce in un contesto già bello caldo.
Pensa al già citato aggiornamento di marzo 2025, che ha fatto piazza pulita di molti contenuti generati dall’intelligenza artificiale senza un’adeguata supervisione umana e ha ridotto drasticamente la visibilità di numerosi forum, risparmiando solo i “pezzi da novanta” come Reddit. E non dimentichiamoci della costante volatilità del ranking che ha continuato a imperversare anche nel mese di maggio. La questione del segnale di popolarità basato su Chrome, poi, ha il sapore amaro di vecchie polemiche, riportando d’attualità le accuse, emerse durante le audizioni al Congresso statunitense nel 2020, secondo cui Google sfruttarebbe i dati raccolti dal suo browser per ostacolare la concorrenza. Non a caso, gli esperti legali già lo indicano come una potenziale “pistola fumante” da usare nel processo antitrust.
E Google? Beh, la sua linea difensiva è sempre la stessa, trita e ritrita: questi sistemi, come si può leggere anche nella loro documentazione ufficiale per sviluppatori, sono implementati al solo scopo di “migliorare la qualità dei risultati di ricerca”, premiando i contenuti originali e di valore e penalizzando quelli di bassa lega o ingannevoli.
Sarà pur vero, ma il tempismo di queste improvvise “aperture”, proprio nel momento in cui l’intero settore chiede a gran voce linee guida più chiare e una maggiore prevedibilità, qualche legittimo dubbio lo solleva, non trovi?
La faccenda, come vedi, è tutt’altro che chiusa.
Anzi, sembra solo l’inizio di una saga che mette nuovamente in discussione il delicato e spesso precario equilibrio tra la tutela dei segreti industriali – che, per carità, ci possono anche stare fino a un certo punto – e la necessità impellente di un mercato digitale che sia davvero equo e trasparente per tutti.
Mentre Google si trova sempre più stretta nella morsa delle autorità di regolamentazione, sia negli Stati Uniti che in Europa con l’incalzante Digital Markets Act, la comunità SEO e, in fondo, tutti noi che navighiamo e lavoriamo online, restiamo con il fiato sospeso.
Chissà quali altre “verità” emergeranno dalle nebbie di Mountain View.
Tu che idea ti sei fatto?
Siamo di fronte a una reale svolta verso una maggiore apertura o è solo l’ennesima operazione di facciata per calmare le acque agitate?
Staremo a vedere.
E nel frattempo, come sempre, non ci resta che rimboccarci le maniche e andare #avantitutta, cercando di capire, interpretare e, soprattutto, non farci trovare impreparati.
Interessante! E quei segnali “fatti a mano” sono così rari o si usano più spesso?
ma quindi chi ha realmente il potere di influenzare questi segnali? Mi intriga!
Wow Questa roba sui segnali “fatti a mano” è pazzesca! Mi chiedo se gli ingegneri Google abbiano una sorta di personale “ricetta segreta”. Una volta ho notato un calo nel ranking del mio blog, chissà se c’entrano questi fattori!