SEO Confidential – La nostra intervista esclusiva a Giorgio Taverniti

Come diventare parte del contesto informativo dell’IA? La visibilità del tuo brand ai tempi dell’IA

Premi play e ascolta l’intervista in pillole

Torna SEO Confidential, la rubrica che ogni settimana porta le voci più autorevoli della SEO e del digital marketing per capire insieme dove sta andando la ricerca e come l’intelligenza artificiale la sta riscrivendo. Uno spazio diretto, senza giri di parole, pensato per chi vuole davvero capirci qualcosa di più sul futuro del web.

Ospite di oggi è Giorgio Taverniti, uno dei più grandi esperti italiani di SEO e innovazione digitale. Fondatore, insieme al team di Search On Media Group, di eventi come il WMF – uno dei più grandi festival sull’innovazione in Italia – Giorgio è un punto di riferimento per chi vive di formazione e comunicazione online.

Sul suo canale YouTube FastForward e nella newsletter FastLetter racconta ogni settimana, con chiarezza e visione, come cambiano i motori di ricerca(o dovremmo dire “di risposta”), i contenuti e le strategie digitali.

Giorgio Taverniti intervistato da Roberto Serra

Con lui abbiamo parlato del futuro della SEO nell’era dell’IA, del senso reale dell’ottimizzazione, di discoverability, fiducia, cultura digitale e del perché serve tornare ai fondamentali. È un’intervista che scava in profondità e mette in discussione molti cliché che circolano nel settore.

Prenditi qualche minuto e leggila con attenzione: questa conversazione fa luce, davvero, su dove sta andando il mondo della ricerca.

Qui puoi vedere l’intervista integrale:

Di seguito, invece, ecco la trascrizione completa.

“L’IA non ha cambiato le regole: sta semplicemente evidenziando ciò che avresti dovuto fare da sempre e che, in molti casi, non hai mai fatto”

In molti ripetono che “serve una buona struttura di codice” o “bisogna investire nel brand”, come se bastasse prendere spunto da un vecchio manuale SEO del 2010.

Ma oggi, con la ricerca che si ibrida sempre più con ChatGPT e sistemi conversazionali, non è forse arrivato il momento di smettere di parlare di “ottimizzazione” e iniziare a discutere di come diventare parte del contesto informativo che l’IA costruisce?

L’ottimizzazione resta fondamentale, ma spesso non si capisce davvero cosa significhi. Una buona struttura del codice è solo una piccola parte del lavoro: la vera ottimizzazione riguarda la pertinenza e la qualità dei contenuti, molto più che gli aspetti tecnici, anche se questi mantengono comunque un loro valore.

Il concetto di “diventare parte del contesto informativo” non è ancora pienamente compreso. Ti faccio un esempio: quando chiedi a un sistema di intelligenza artificiale un’informazione o un prodotto, la prima cosa che fa non è mostrarti risultati, ma costruire un contesto interno.

L’IA si “racconta” la domanda per capirne lo scopo: perché vuoi quel prodotto? Quali caratteristiche ha? Che tipo di informazione serve davvero?

In questa fase non siamo ancora nelle query fan-out. E se tu non gli dai quel contesto informativo, l’IA se lo crea da sola.

Ora, come fai a essere dentro quel contesto informativo? Come fai a essere dentro il sistema di query fan-out? E poi, come fai a essere nel prodotto?

Sono tre step importantissimi da mappare: tre pezzi informativi, tre risorse diverse che ti servono per fare questo passaggio. Molte persone non ne hanno idea e non sanno quali siano queste tre risorse. Quindi sì, il contesto informativo è importantissimo, e lo sarà sempre di più.

Uno studio di OpenAI e Harvard mostra che ChatGPT viene usato soprattutto per chiedere informazioni e consigli: in pratica, sta diventando il nuovo intermediario tra utente e contenuto.

Allora, che senso ha continuare a ragionare rigidamente in termini di keyword e meta description, se la partita si gioca ormai sulla fiducia semantica del modello e non solo sull’indicizzazione tradizionale?

L’indicizzazione tradizionale, ad oggi, non è stata superata. I motori di ricerca attuali funzionano con un modello ibrido: non hanno abbandonato il sistema classico, ma lo integrano con quello dei bi-encoder. In pratica, prima usano il motore di ricerca tradizionale per individuare un insieme di documenti, poi applicano il sistema bi-encoder per trovare la risposta più corretta all’interno di quel contesto.

Faccio un esempio semplice: se cerchi “anello smart ring per controllare il computer”, il sistema ha bisogno prima dell’indicizzazione classica per recuperare un minimo di documenti rilevanti. Solo dopo entra in azione la parte bi-encoder, che lavora sul contesto e sull’interpretazione semantica. Il contesto, in questa fase, lo fornisce il motore di ricerca tradizionale: è da lì che tutto parte.

Questo almeno fino ad ora, per come sono stati sviluppati. Io ho ipotizzato che, in un futuro, si potrà passare a un sistema basato sugli embeddings per individuare direttamente i documenti, ma al momento i grandi player sembrano addirittura andare oltre questa direzione, quindi bisogna capire come evolverà.

Però, ad oggi, l’indicizzazione classica è fondamentale, perché i motori di ricerca e le IA hanno bisogno di prendere un contesto. Perché ne hanno bisogno? Perché costerebbe troppo applicare immediatamente il sistema classico delle IA. Non è scalabile, costa ancora troppo. Quindi non siamo ancora arrivati a quel modello che stai citando.

Tra l’altro, poi, sulla ricerca di ChatGPT, tra il momento in cui mi hai chiesto di fare questa intervista e quando l’ho fatta, ho pubblicato un video dedicato, perché credo che sia una delle pochissime ricerche valide, forse l’unica ad oggi.

Quindi, nella tua domanda è implicito che non ha senso comunque ragionare in termini di keyword e description, perché anche il sistema di indicizzazione non ragiona più in quel modo “tradizionale”.

E spero che un giorno finiremo di parlare di “tradizionali” e “nuovi”, perché secondo me non ha più senso: i motori di ricerca sono motori di ricerca, punto.

In questo tuo video parli di “stanchezza del settore” e della lentezza con cui il digital sta affrontando l’AI transformation. Ma non pensi che una parte della responsabilità sia proprio di chi, negli anni, ha reso la SEO un linguaggio tecnico autoreferenziale, più attento alle sigle che alla cultura digitale di base che oggi mi pare ai minimi storici?

Guarda, forse sì, forse no. Nel senso che io non ho letto le domande prima, perché mi piace molto di più il flusso di pensiero rispetto al pensarci prima, nelle interviste.

Allora sì, da un lato hai ragione. Nel senso che chiunque abbia fatto divulgazione, e quindi mi includo, ha contribuito in qualche modo a questo problema.

C’è sempre stata un po’ di autoreferenzialità, e spesso si è usato un linguaggio troppo tecnico. A volte si è anche forzata la mano.

Lo vedo oggi con l’IA: tutti forzano la mano per fingere di dominare davvero la materia, perché manca una cultura di base, e questo è un problema.

Però bisogna anche dire che negli anni Duemila quella cultura c’era. Le persone condividevano, sperimentavano, e gli ambienti in cui lo facevano erano i forum o i blog personali. C’era un livello più “artigianale” della materia (quasi pionieristico), che era molto interessante e spingeva le persone a provare, a mettersi in gioco.

Oggi non è più così. C’è molta più autoreferenzialità, più personalismo: si sgomita per prendersi qualche cliente in più. E il problema nasce anche dal fatto che, per esempio, un ragazzo delle scuole superiori che vuole entrare nel mondo del lavoro, fino a qualche anno fa trovava più facile partire dai social che dalla SEO. Almeno all’inizio, poi ogni ambito ha le sue complessità.

Oggi invece ci sono le IA, e quindi succede che un’intera generazione si avvicina al digitale partendo da strumenti nuovi, ma senza basi solide. Quando inizi con i social ti mancano le basi tecniche, sviluppi altre competenze, ma non quelle SEO. Sui social c’è molta più attenzione alla comunicazione, alla linea editoriale, al brand – e questo va bene – tra l’altro penso che anche la SEO dovrebbe fare la stessa cosa, se fatta bene.

Il problema è che l’ingresso nella materia oggi richiede sempre meno conoscenze tecniche, e quindi le persone non la studiano. Secondo me è questo il punto. Anche se una parte della responsabilità viene da tutta quella divulgazione fatta “a checklist”, in modo superficiale, che negli anni ha un po’ appiattito tutto il settore.

Dici che la “GEO è una ca**ata” e che serve tornare ai fondamentali: creare risorse di valore e un ecosistema solido. Ma se la SEO oggi è ancora soffocata da micro-consulenze e “fuffa” da LinkedIn, non è segno che anche la formazione, compresa quella offerta dalle community e dagli eventi, ha fallito nel costruire una mentalità realmente strategica?

Allora no, su questo non concordo. La micro-consulenza, la “fuffa da LinkedIn”, come la chiami, ci sarà sempre, ma c’è in tutti i settori. Noi la notiamo di più perché siamo SEO, ma se vai in altri ambiti è uguale. Quando porti in un ambiente sociale la visibilità come metrica – sia di algoritmi che di persone – queste tendono a estremizzare le cose per ottenere più attenzione. E su LinkedIn questa estremizzazione è evidente.

La mentalità realmente strategica, però, è un altro discorso. Io la dividerei in due: da una parte c’è il pensiero critico, dall’altra la strategia. E secondo me oggi mancano entrambi. Il problema, a livello macro, è proprio la mancanza di tutte e due. Lo spirito critico sta venendo meno perché, nella velocità con cui lavoriamo, abbiamo troppi problemi da gestire.

Io l’ho detto anche rispetto all’intelligenza artificiale: andrà come con tutte le altre tecnologie. L’essere umano resta quello, non cambia. Ci siamo raccontati che avremmo lavorato di meno, ma col cavolo: si lavora sempre di più, e chi lavora, lavora ancora di più.

Per questo lo spirito critico è difficile da mantenere. Bisogna stare sempre sul pezzo, o almeno si ha questa sensazione costante, e si finisce per essere più superficiali in quello che si legge e in come si ragiona.

La mentalità strategica dovrebbe invece scavalcare tutto questo: bisognerebbe partire dagli obiettivi reali del cliente e costruire una strategia per raggiungerli. Ma questo non lo fa quasi nessuno. È molto più semplice guardare i dati nelle piattaforme, analizzare la Search Console, i dati di Meta Ads, piuttosto che prendere il toro per le corna e lavorare davvero sulla direzione da seguire.

Spesso si vendono servizi solo perché si sanno fare, non perché il cliente ne abbia bisogno. E invece il cliente, quasi sempre, ha bisogno di tutt’altro.

Non so quanto la formazione abbia responsabilità in questo, credo poca. Perché qui entrano in gioco aspetti umani che dipendono dal singolo, non da chi fa formazione. La responsabilità vera la hai se stai accanto a qualcuno ogni giorno, non se fai uno speech o un evento.

Parli di discoverability come filosofia centrale del futuro, ma nel frattempo l’attenzione del mercato si è spostata verso l’IA come strumento di produzione più che di pensiero.

Non rischia di diventare un altro slogan se non si affronta il nodo economico di fondo, cioè come redistribuire il valore che l’IA sta sottraendo a chi crea contenuti?

Allora, una cosa è la distribuzione del valore economico. Ne abbiamo parlato anche al WMF: si potrebbe pensare un modello di redistribuzione, perché chi crea valore deve poter monetizzare in modo diverso.

Non è una cosa che “avverrà” facilmente, però è giusta. Dovrebbe intervenire la politica, ma non è semplice. Andrebbe cambiato il modello di monetizzazione, questo sì, per fare in modo che chi produce contenuti sia ricompensato in modo equo. Però non so come andrà a finire questa storia, perché sto vedendo che molti stanno bypassando i creator e facendo accordi direttamente con le piattaforme: vedi Reddit, vedi altri casi simili. È un problema, un problema davvero molto importante.

La discoverability, però, è un’altra cosa. È vero che l’attenzione del mercato si è spostata verso l’IA, senza alcun dubbio. Ed è una doppia opportunità: da una parte c’è chi usa l’IA per attaccare e guadagnare spazio, dall’altra c’è chi invece la sfrutta ma ha bisogno di strategia, e qui torniamo al punto di prima.

Oggi la maggior parte delle aziende lamenta una mancanza di strategia. Ci sono pochi piani strategici, poca visione di lungo periodo. E questo perché la parola “strategia” non è fuffa, assolutamente no. Ma non è nemmeno “facciamo la SEO e un po’ di email marketing”. Occuparsi di strategia ha tutt’altro sapore.

La discoverability è strategia, perché per farla bene devi sapere con chiarezza chi è il brand per cui la stai facendo e devi centralizzare le informazioni che hai, per poi distribuirle nel modo giusto. Ma se non hai un piano strategico a monte, rischi di combinare disastri. Quindi, per me, è tutta un’altra cosa.

Quanto al nodo economico di fondo, possiamo parlarne quanto vogliamo, ma è come buttare un sasso nell’oceano: in questo momento nessuno è davvero nella posizione di poter cambiare qualcosa. E la vedo molto, molto dura.

Discover sta diventando il punto unico di accesso all’informazione, capace di aggregare social, creator e testate giornalistiche in un solo flusso. Ma se Google diventa la “homepage del mondo”, non stiamo tornando all’era dei portali chiusi che il web libero avrebbe dovuto superare? In che modo i publisher possono evitare di diventare semplici fornitori di contenuti per l’ecosistema di Google, senza ottenere nulla in cambio?

I publisher devono fare cartello, senza alcun dubbio. Devono chiedere ciò che è giusto chiedere, però essendo consapevoli di cosa stanno chiedendo. Perché lo abbiamo visto in passato: spesso hanno chiesto cose insostenibili.

Andrebbero guidati da un comitato tecnico competente, capace di formulare richieste serie, basate su criteri concreti. Da un lato c’è la politica, dall’altro ci sono le piattaforme che prendono e gestiscono le informazioni.

Google sta accentrando tantissimo, lo sappiamo. Quando c’è un accentramento di questo tipo, non si parla di innovazione, anche se al momento sembra di sì. Google l’innovazione la fa, la fa da venti o trent’anni, ma questo tipo di accentramento resta comunque rischioso.

Non per Google, per loro è business, è chiaro, ma in generale è una situazione sempre, sempre rischiosa.

Servono quindi comitati tecnici molto competenti, in grado di spiegare realmente cosa sta succedendo e di avanzare richieste precise e sensate. Su questo non ho alcun dubbio.

Credo che, a un certo punto, chi produce contenuti sarà retribuito in modo diretto dalle piattaforme che li utilizzano. Però, ad oggi, siamo ancora molto lontani da quel modello.

Discover porta enormi volumi di traffico, spesso invisibili nei dati. Ma non è paradossale che l’unico canale rimasto realmente vitale per l’informazione online sia anche quello più opaco e incontrollabile?

Allora sì, Google ci dà poche, pochissime informazioni su Discover. Le puoi vedere solo nella Search Console e, in parte, in Google Analytics come traffico diretto. Non è una bella cosa, assolutamente.

E non sarà mai davvero controllabile, perché alla base c’è un feed algoritmico, quindi per sua natura non è controllabile. Da questo non se ne esce, è così.

Però i publisher devono cominciare a prendere consapevolezza del fatto che l’ambiente è cambiato, e che Discover, così come i video, rappresentano ormai una parte molto importante della visibilità.

E invece questo non avviene: molti non lo considerano davvero, pensano che basti aprire una sezione “video” sul sito per dire di occuparsene. Ma non è così. Quella parte oggi è una delle più esposte e decisive, e andrebbe trattata come tale.

Sostieni che bisogna “continuare a fare ciò che funziona”, ma il problema è che oggi è sempre più complesso misurare cosa funzioni davvero tra Overview, AI Mode, Discover e AI agentiche.

Non c’è il rischio, così, di ragionare solo nel breve periodo, trascurando la costruzione di un’autorevolezza di brand che può dare frutti solo nel lungo termine?

Non c’è nessun rischio, no. L’autorevolezza di brand non è in discussione da quello che dico. Quando parlo di “continuare a fare ciò che funziona nella SEO”, mi riferisco per forza alle parti tecniche. Bisogna continuare a fare quello che già funziona.

L’autorevolezza di brand riguarda le campagne di awareness, la parte legata al marchio, e non c’entra nulla con questa dinamica. Quelle cose continuano a funzionare, e continueranno a farlo.

Occorre per forza continuare a lavorare su brand awareness e community, sul contatto diretto con il tuo pubblico. Se sei un brand, autorevolezza e community sono due elementi di cui devi sempre preoccuparti: funzionano da sempre.

Quando dico “continua a fare ciò che funziona”, intendo le parti più tecniche della SEO. Con l’IA, devi semplicemente continuare a fare ciò che già dà risultati: se stai producendo buone risorse, continua a farlo; se stai lavorando bene con i dati strutturati, continua anche lì. Queste cose vanno mantenute, non stravolte solo perché è arrivata l’IA.

L’IA non ha cambiato le regole: sta semplicemente portando in evidenza ciò che avresti dovuto fare da sempre e che, in molti casi, non hai mai fatto.

Se tutti avessero seguito il mio consiglio di quindici anni fa, quello di creare un Wiki interno con tutti i contenuti, oggi sarebbero visibili nella prima fase del contesto informativo della ricerca IA. Ma non è successo. Così come, se tutti avessero tenuto un blog aggiornato con i temi migliori e le novità, oggi quegli e-commerce sarebbero molto più rilevanti nelle query fan-out.

Quindi sì, bisogna continuare a fare quello che funziona. E di solito lo sai già cosa funziona. Cosa funziona per l’IA lo stiamo ancora studiando, e continueremo a farlo. Alcune cose sono cambiate, certo, ma soprattutto nei processi tecnici.

Gli imprenditori naturalmente guardano alle vendite e alle conversioni, sanno bene che il traffico fine a se stesso serve solo a gonfiare l’ego.

Ma come si può dimostrare in modo concreto quanto la SEO contribuisca davvero ai risultati? E chi può rivendicare il merito di una vendita, se il percorso dell’utente si disperde tra mille passaggi invisibili?

Questo grande storytelling secondo cui sul web tutto è misurabile, che “se spendi un centesimo, sai dove finisce quel centesimo”, col cavolo! È una bella favoletta che ci siamo raccontati.

Nei primi anni poteva anche essere vera, perché c’erano pochi canali e modelli di attribuzione molto semplici. Oggi non è più così. È una favola, oggi.

Come si può dimostrare, allora, in modo concreto quanto la SEO contribuisca ai risultati? Ci sono vari modelli di attribuzione ovviamente… Ma quando un progetto coinvolge tanti canali, ognuno contribuisce in modo diverso.

Io, sinceramente, non vedo neanche il problema di dover “dimostrare” che la SEO contribuisce. Anche perché: chi è che fa più solo SEO, oggi?

È quasi impossibile trovare qualcuno che faccia solo quello. I freelance non fanno più solo SEO, perché in un progetto ormai impattano troppe cose diverse.

Quindi non è una domanda a cui si possa rispondere facilmente. La risposta, in realtà, te la dai nel concreto, quando affronti un progetto vero, con un cliente reale. Non esiste un modello unico valido per tutti.

Questo è anche il motivo per cui la consulenza oggi si sta frammentando molto.

Google punta sempre di più sulla pubblicità, la sua principale fonte di guadagno. Ma appena si smette di investire in Ads, la visibilità svanisce. La SEO, invece, richiede tempo: serve a costruire autorevolezza e presenza duratura.

Il problema è che, se Google continua a nascondere dati e percorsi degli utenti, diventa quasi impossibile misurare il vero impatto del lavoro di ottimizzazione. Mi riferisco all’opacità dei dati in Search Console, per esempio…

Come si può, allora, chiedere alle aziende di investire nella SEO se gli strumenti per dimostrarne il valore reale sono sempre meno precisi?

Roberto, questo è un tema molto interessante e molto attuale, anche perché su alcuni progetti le attività SEO hanno un valore che è diminuito, mentre su altri è cresciuto. Quindi dipende molto dal tipo di progetto che stai facendo.

Il lavoro del SEO oggi è un lavoro che riguarda tutta la visibilità su internet: sta andando a prendersi un po’ tutta quella che è la visibilità complessiva su internet.

Nel mondo dell’e-commerce, per esempio, si sta allargando tantissimo l’impatto della SEO su vari canali, fino a collaborare in modo stretto con l’advertising per garantire coerenza tra il feed e il sito.

La verità è che oggi la SEO diventa obbligatoria per alcune tipologie di siti. Se hai una proprietà online, dall’altra parte ti ritrovi a interagire con utenti, agenti AI, motori di ricerca, bot e sistemi automatici. È inevitabile: sul tuo progetto ci devi fare delle attività di ottimizzazione.

Nel video che sto preparando per la nostra accademia racconto proprio questa evoluzione della SEO. Prima era: Google, utenti e sito web.

Oggi è diventata: internet, utenti, agenti e bot; e non più solo “il sito”, ma “la proprietà digitale”. Si è allargato tantissimo lo spettro d’azione della nostra materia.

Noi oggi ci occupiamo della visibilità su internet, non più solo della visibilità su Google. Questa è la verità. E per questo non sento il bisogno di “dimostrare” il valore reale della SEO: non serve.

Si parte dal presupposto che un’azienda sappia di aver bisogno di visibilità. La visibilità o la compri o la ottieni, ma in entrambi i casi va ottimizzata.

Di conseguenza, la richiesta di servizi SEO sta aumentando sempre di più. Lo dicevo uno o due anni fa che la SEO stava esplodendo, e molti mi prendevano in giro. Ora, invece, lo stiamo vedendo: ci sono tantissime richieste di visibilità.

Quindi non mi trovo nella condizione di dover dimostrare il valore reale di una consulenza. Quello che facciamo noi è semplice: il cliente parte da un punto A e vuole arrivare a un punto B. Il valore non lo misuri da un canale solo, ma dall’impatto che tutto il lavoro ha avuto nel portare il cliente da A a B.

Se riesci a fare questo, poi puoi entrare nei dettagli. Il problema è che, a livello macro, spesso non sappiamo ancora fare questa cosa. Anche perché, dall’altra parte, magari parli con team che non ti danno le informazioni necessarie, e quindi diventa difficile entrare in questo tipo di logica.

Io, però, a livello personale, non vedo questa come una difficoltà…

Beh, grazie mille per l’intervista, Roberto, spero di rivederti presto!

La SEO oggi non serve a farti trovare su Google, ma su ogni angolo di Internet

Il futuro della SEO, quindi, non è nella nostalgia delle “regole di Google”, ma nella costruzione di valore autentico. Chi saprà interpretare la complessità dell’IA, senza smarrire i fondamentali, avrà un vantaggio enorme.

Ed è proprio qui che si gioca, a mio avviso, la vera sfida dei prossimi anni: non adattarsi passivamente all’IA, ma dialogare con essa. Capire come i modelli costruiscono il contesto informativo significa imparare a “formare” l’algoritmo attraverso contenuti solidi, coerenti e riconoscibili.

Non devi pensare all’ottimizzazione come un insieme di trucchi tecnici, ma come un lavoro culturale sul significato, sulla pertinenza e sulla fiducia.

Giorgio lo dice chiaramente: oggi la SEO non serve più solo a posizionarsi su Google, ma a gestire l’intera visibilità online di un brand.

Il suo campo d’azione si è ampliato: riguarda utenti, agenti AI, bot, motori di ricerca e qualsiasi piattaforma digitale in cui un contenuto può emergere.

La visibilità oggi si costruisce e si ottimizza ovunque, perché un’azienda che vuole essere trovata non può più limitarsi a Google: deve essere riconoscibile, leggibile e accessibile da ogni punto della rete.

Un ringraziamento sincero a Giorgio Taverniti per la profondità con cui ha condiviso i suoi punti di vista su come cambia la SEO ai tempi dell’IA. Ci vediamo la prossima settimana, sempre su SEO Confidential, con un nuovo ospite, a presto!

Roberto Serra

Mi chiamo Roberto Serra e sono un digital marketer con una forte passione per la SEO: Mi occupo di posizionamento sui motori di ricerca, strategia digitale e creazione di contenuti.

1 commenti su “SEO Confidential – La nostra intervista esclusiva a Giorgio Taverniti”

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