Dietro le proiezioni di crescita esponenziale del mercato dell’Intelligenza Artificiale si nasconde una vorace estrazione di dati personali e una scommessa rischiosa sulla normativa europea.
Se c’è una cosa che abbiamo imparato in questi anni di ubriacatura tecnologica, è che quando i grafici degli analisti puntano verso l’alto con la pendenza di una parete alpina, da qualche parte, a valle, c’è qualcuno che sta per essere travolto da una valanga.
Siamo al 9 dicembre 2025 e l’ultimo oracolo finanziario è stato appena servito su un piatto d’argento: il mercato globale dell’Intelligenza Artificiale sta correndo verso il traguardo del trilione e mezzo di dollari.
Sembra una buona notizia, vero?
Un trionfo dell’ingegno umano, il motore di una nuova rivoluzione industriale. O almeno, questo è quello che c’è scritto nei comunicati stampa patinati che intasano le caselle email delle redazioni di tutto il mondo. Ma se proviamo a scrostare la patina dorata del marketing e a guardare cosa c’è sotto il cofano di queste previsioni miliardarie, il quadro cambia.
Non stiamo parlando solo di software più intelligenti o di assistenti vocali che capiscono finalmente i dialetti regionali. Stiamo parlando della più grande operazione di estrazione di dati comportamentali della storia, venduta come “innovazione”.
I numeri, per quanto asettici, raccontano una storia di voracità senza precedenti. Secondo le ultime proiezioni, il mercato globale dell’Intelligenza Artificiale dovrebbe raggiungere la cifra monstre di 1.379 miliardi di dollari entro il 2030.
Partendo dai “modesti” 282 miliardi del 2024, siamo di fronte a un tasso di crescita annuale composto (CAGR) superiore al 37%. Per intenderci: nessun settore industriale sano cresce a questa velocità senza effetti collaterali devastanti.
È una corsa all’oro dove le piccozze sono gli algoritmi e la miniera siamo noi.
L’illusione della crescita infinita
Chi sta brindando a queste cifre?
Non certo l’utente medio, che si ritrova a dover cedere un altro pezzo della propria privacy ogni volta che accetta i termini di servizio di un nuovo “copilota” digitale. A stappare lo champagne sono i produttori di hardware e i colossi del cloud, i veri padroni del vapore in questa nuova era.
C’è un dettaglio in queste proiezioni che passa spesso inosservato: l’enorme discrepanza tra le stime. Mentre alcuni report si fermano a 1,38 trilioni, altri si spingono fino a 1,8 trilioni. Mezzo trilione di dollari di differenza, praticamente il PIL di una piccola nazione europea, che balla tra una stima e l’altra.
Questa volatilità non è errore statistico; è la misura dell’incertezza su quanto ancora si potrà spremere dal limone dei dati personali prima che le normative o la sfiducia sociale chiudano i rubinetti.
Le aziende di analisi di mercato, nel loro entusiasmo, tendono a dimenticare che l’IA non è una risorsa naturale che sgorga dal terreno. È un prodotto che richiede due ingredienti fondamentali: potenza di calcolo (e qui l’energia costa) e dati (e qui la privacy costa). Una delle proiezioni più citate evidenzia proprio questa fame insaziabile:
Il mercato globale dell’intelligenza artificiale è stato valutato a 279 miliardi di dollari nel 2024 e si prevede che raggiungerà circa 1,8 trilioni di dollari entro il 2030, espandendosi a un CAGR del 35,7% durante il periodo di previsione 2025-2030.
— Analista di mercato anonima, Report OpenPR
Notate il linguaggio: “espandendosi”. Come un gas. Ma un gas, per espandersi, deve occupare spazio. E lo spazio che l’IA sta occupando è quello delle nostre libertà civili.
La domanda che nessuno pone durante le conferenze degli investitori è: da dove arriverà la benzina per alimentare questa crescita del 37% annuo per i prossimi cinque anni?
La risposta è sgradevole.
Per mantenere questi ritmi, l’industria tech non può limitarsi a migliorare l’efficienza dei processi aziendali. Deve invadere nuovi territori. Deve entrare nelle nostre case, nelle nostre auto, nei nostri ospedali e nelle nostre scuole. Non è un caso che i segmenti a più alta crescita siano quelli della “sorveglianza predittiva” (eufemisticamente chiamata sicurezza) e del marketing comportamentale.
Il muro di gomma normativo
Qui entriamo nel territorio del conflitto strutturale. L’Europa, con il suo GDPR e il più recente AI Act, ha tentato di tracciare una linea sulla sabbia. Le istituzioni di Bruxelles hanno passato gli ultimi anni a costruire un argine normativo, basandosi sul principio che la dignità umana non è un input algoritmico.
Eppure, le previsioni di mercato sembrano ignorare completamente queste barriere, dando per scontato che la tecnologia scavalcherà la legge, o che le sanzioni saranno semplicemente calcolate come “costo operativo”.
Il Garante Europeo della Protezione dei Dati (EDPS) e il Comitato (EDPB) non sono rimasti in silenzio. Hanno lanciato allarmi precisi, quasi chirurgici, sui rischi di un’adozione di massa non controllata. Non si tratta di luddismo burocratico, ma di matematica dei diritti. L’EDPB ha ripetutamente avvertito che una rapida implementazione dell’IA deve necessariamente essere accompagnata da una rigorosa conformità al GDPR, specialmente per quanto riguarda la minimizzazione dei dati.
Tuttavia, guardando i report finanziari di oggi, sembra che il mercato stia scommettendo contro i regolatori. Se le aziende prevedono di quintuplicare i ricavi, stanno implicitamente scommettendo sul fatto che riusciranno a raccogliere cinque volte più dati, o a processarli cinque volte più in profondità, aggirando i principi di limitazione della finalità che sono il cuore della normativa europea.
È una scommessa cinica: si punta sul fatto che l’innovazione corra più veloce dei tribunali.
E non dimentichiamo il convitato di pietra: i chip. Tutta questa “intelligenza” eterea ha un corpo fisico pesantissimo fatto di silicio, terre rare e fabbriche che consumano quanto intere città.
Chi paga il conto della festa?
Mentre ci abbagliano con le cifre dei ricavi software, il vero spostamento di ricchezza sta avvenendo nelle infrastrutture. È la vecchia storia della corsa all’oro: non diventa ricco chi cerca le pepite, ma chi vende le pale. In questo caso, le “pale” sono le GPU e gli acceleratori neurali.
Questa concentrazione di potere economico in mano a pochissimi produttori di hardware e a tre o quattro fornitori di cloud (gli hyperscaler) crea un collo di bottiglia pericoloso. Se l’accesso all’IA diventa la condizione necessaria per competere in qualsiasi settore, dal retail alla finanza, allora queste aziende diventano di fatto i gabellieri dell’economia globale. Ogni transazione, ogni diagnosi medica, ogni decisione di credito pagherà un “pedaggio” tecnologico a questi giganti.
È interessante notare come l’entusiasmo degli analisti si spenga improvvisamente quando si parla di responsabilità. Se un algoritmo da 1,3 trilioni di dollari sbaglia una diagnosi o discrimina un candidato per un lavoro, chi paga?
Il modello di business attuale è perfetto: privatizzare i profitti miliardari e socializzare i rischi e gli errori.
L’ironia finale è che stiamo costruendo questa cattedrale tecnologica su fondamenta di argilla. I modelli generativi, che guidano gran parte di questa euforia speculativa, stanno iniziando a mostrare i limiti del “cannibalismo digitale”: addestrati su dati generati da altre IA, rischiano il collasso qualitativo. Eppure, il mercato continua a proiettare una crescita lineare, come se il mondo fosse infinito.
Arrivati al 2030, potremmo scoprire che quel valore di 1,38 trilioni di dollari non rappresenta ricchezza creata, ma valore estratto: dalla nostra attenzione, dalla nostra privacy e dalla nostra autonomia decisionale.
La domanda da farsi, guardando questi numeri da capogiro, non è se le previsioni si avvereranno.
La domanda è: ci possiamo permettere che si avverino?

Questa corsa al trilione è una festa a cui siamo tutti invitati, ignari di essere il piatto principale, e io continuo ad apparecchiare la tavola.