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Contattaci ora →Il progetto di OpenAI e Jony Ive, l’ex designer di Apple, si scontra con limiti infrastrutturali e questioni etiche, mettendo a rischio il lancio del tanto atteso “iPhone dell’AI”
Il progetto congiunto di OpenAI e Jony Ive per un ambizioso dispositivo AI, il presunto 'iPhone dell'AI', sta affrontando serie difficoltà. Si registrano problemi di potenza di calcolo, gestione della privacy e una competizione serrata con i colossi tecnologici. Nonostante il coinvolgimento di Jony Ive, le sfide infrastrutturali e tecniche potrebbero ritardare il lancio previsto per il 2026.
Un progetto ambizioso, ma con i piedi d’argilla
Il cuore del problema, diciamocelo senza troppi giri di parole, è l’infrastruttura. OpenAI ha creato modelli linguistici che hanno cambiato il nostro modo di interagire con la tecnologia, ma una cosa è far girare ChatGPT su un server, un’altra è alimentare un dispositivo fisico che dovrebbe essere “sempre attivo”.
OpenAI sta faticando a garantirsi la potenza di calcolo necessaria persino per le sue attuali operazioni, figuriamoci per un gadget che dovrebbe ascoltare e osservare il mondo costantemente. A differenza di Amazon con Alexa o Google con il suo Assistant, che hanno alle spalle anni di investimenti in data center mastodontici, OpenAI si trova a dover costruire le fondamenta mentre cerca già di arredare l’attico.
Ma non è solo una questione di “muscoli” informatici. Sul tavolo ci sono altri grattacapi, e non da poco.
Come si definisce la “personalità” di un assistente AI senza che risulti irritante o innaturale?
E soprattutto, come si gestisce la privacy di un utente quando il dispositivo è progettato per raccogliere dati 24 ore su 24, 7 giorni su 7?
Domande che non hanno ancora una risposta chiara e che gettano un’ombra pesante su un lancio previsto per il 2026. Certo, a capo del design c’è un nome che è una garanzia.
O forse no?
L’ombra di Jony Ive: garanzia di successo o scommessa azzardata?
Avere Jony Ive nel team è come avere Pelé in attacco.
Parliamo dell’uomo che, insieme a Steve Jobs, ha definito l’estetica della tecnologia moderna con prodotti come l’iMac, l’iPhone e l’iPad. La sua filosofia del “less but better”, meno ma meglio, ha trasformato oggetti di uso quotidiano in icone di stile e funzionalità. Il suo approccio quasi maniacale al dettaglio è leggendario: dalla scelta dei colori delle prime scocche trasparenti alla lavorazione del metallo dei portatili, nulla era lasciato al caso.
Dopo aver lasciato Apple nel 2019, Ive ha continuato a lavorare con il suo studio LoveFrom per clienti di altissimo profilo, prima di legarsi a OpenAI. La sua presenza dovrebbe essere un sigillo di qualità, una promessa che il prodotto finale sarà non solo funzionale, ma anche un oggetto del desiderio.
Eppure, una domanda sorge spontanea:
Il genio di Ive, che ha sempre potuto contare sulla potenza ingegneristica e sulle risorse quasi illimitate di Apple, può bastare in un contesto dove mancano le basi infrastrutturali?
Il design più pulito del mondo non serve a nulla se il motore che lo alimenta continua a perdere colpi.
E quel motore non deve solo funzionare, ma deve anche competere in una gara dove i concorrenti sono partiti con un vantaggio enorme.
Una corsa in salita contro i giganti della tecnologia
Il vero campo di battaglia non è tanto il design del dispositivo, quanto la capacità di renderlo intelligente, reattivo e, soprattutto, affidabile. Qui, OpenAI e Ive non stanno partendo da zero, ma quasi.
Giganti come Google e Amazon hanno passato l’ultimo decennio a perfezionare i loro ecosistemi, investendo miliardi per far sì che i loro assistenti vocali rispondano in una frazione di secondo.
Stanno cercando di entrare in una festa a cui gli altri partecipano da ore, e per di più con un’idea, quella del dispositivo “always-on”, che solleva questioni etiche e di privacy non indifferenti.
Le fonti interne al progetto parlano di “normali difficoltà di sviluppo”, ma è difficile non essere scettici, come risulta leggendo quest’articolo di TechCrunch.
La sfida che hanno di fronte è titanica: non si tratta solo di creare un bell’oggetto, ma di costruire da zero l’intera architettura che lo supporta, convincendo al tempo stesso le persone a fidarsi di un dispositivo che, per sua natura, sa tutto di loro.
La collaborazione tra la mente visionaria di OpenAI e il tocco magico di Ive ha il potenziale per ridefinire ancora una volta il nostro rapporto con la tecnologia, come riporta il Financial Times.
Ma tra il dire e il fare, in questo caso, ci sono server da costruire, algoritmi da affinare e, soprattutto, la fiducia degli utenti da conquistare.
Resta da vedere se questa unione di talenti riuscirà a superare ostacoli così concreti o se questo ambizioso progetto si rivelerà un passo più lungo della gamba.
Questo progetto sembra un po’ troppo fantascientifico. Non è che si stiano facendo illusioni sui limiti della tecnologia attuale per un dispositivo così spinto?
Mi pare ovvio che la potenza di calcolo sia il freno principale. Chiunque con un minimo di sale in zucca lo capisce. Che poi Jony Ive si sia messo in mezzo a ‘sta storia, non cambia le leggi della fisica. Si illudono se pensano di risolvere tutto con un bel design.
L’ambizione di questo progetto è chiara, ma le difficoltà infrastrutturali sollevano dubbi concreti. La scalabilità dei modelli AI su dispositivi fisici resta una sfida titanica. Chissà se la visione di Ive riuscirà a superare questi ostacoli tangibili.
Il coinvolgimento di Ive è una garanzia di design, ma la potenza di calcolo necessaria per un dispositivo AI personale appare ancora un miraggio. Forse il vero ostacolo è la nostra stessa aspettativa di onniscienza tecnologica.
Le sfide che emergono da questo progetto sono notevoli. Mi chiedo se questa spinta verso l’intelligenza “sempre attiva” non ci porti a sottovalutare la stabilità che ancora cerchiamo nei nostri strumenti.
Ah, il solito racconto di buone intenzioni e infrastrutture che non tengono il passo. Si parla di “iPhone dell’AI”, ma mi chiedo se non sia solo un altro modo per far girare qualche algoritmo con più fronzoli. La vera intelligenza, quella che crea valore, non si misura in teraflop.
Ma si sa, a volte l’entusiasmo per un’idea annebbia la vista dei limiti reali. Sarà che la realtà dell’hardware è sempre più ostica del codice?
Ma dai, pensavo fosse tutto pronto. Ancora problemi di infrastruttura? Sembra che ogni volta che si parla di nuove tecnologie, torniamo sempre ai soliti intoppi. A questo punto, mi chiedo se riusciranno mai a mettere insieme tutti i pezzi o se è solo fumo negli occhi.
Mah, che sorpresa. L’entusiasmo fa sempre il suo corso, ma la dura realtà dell’infrastruttura è un muro che pochi superano. Chi punta al futuro dovrebbe avere la lungimiranza di costruirne le fondamenta solide, altrimenti si rischia solo di creare castelli in aria.
La potenza di calcolo è il vero collo di bottiglia. OpenAI ha bisogno di un’infrastruttura che non ha ancora. Questo ritardo mi preoccupa: la concorrenza avanza rapida. Dove arriveremo con tutta questa attesa?
Pensavo che la vera sfida fosse più legata al software che all’hardware.
Ormai lo sappiamo: dietro ogni “rivoluzione” ci sono montagne di cavi e server che si surriscaldano.
Il “telefono AI” sembra un altro miraggio costoso. L’infrastruttura è il vero colpo basso, non l’etichetta fighetta.
Chissà quanto bruceranno in bollette elettriche per un aggeggio che probabilmente farà solo cose che lo smartphone già fa, ma con più latenza.
Certo, Antonio Romano, tecnico affabile, qui! La sfida dell’infrastruttura per un dispositivo AI “sempre attivo” è notevole. Speriamo che trovino una soluzione sostenibile per la potenza richiesta.
Chissà se queste “sfide tecnologiche” non siano una scusa per non tirare fuori un prodotto che poi alla fine non cambierà granché. Alla fine, si tratta sempre di far sembrare il vecchio qualcosa di nuovo. Vedremo se questo “iPhone dell’AI” sarà una vera rivoluzione o solo un altro gadget.