Il marketing ha smesso di parlare alle persone: Mordy Oberstein spiega perché è il momento di fare autocritica
Rieccoci su SEO Confidential: oggi affronteremo una questione che tocca tutti: quando il marketing ha smesso di parlare alle persone e ha iniziato a inseguire le mode del momento?
E come si ricostruisce la fiducia in un momento in cui l’hype sull’IA rischia di oscurare ciò che davvero muove i mercati?
L’ospite di questa conversazione è Mordy Oberstein, una delle menti più influenti nel panorama search e brand strategy.
Founder di Unify Brand Marketing, consulente per Semrush, ex Head of Communications e poi Head of SEO Brand in Wix, Mordy ha ridefinito la percezione dei brand che rappresenta.
La sua filosofia è tanto semplice quanto spietata: o la promessa del brand resiste alla prova della vita reale, oppure è solo rumore di fondo.
In questa nostra intervista esclusiva, Mordy smonta l’illusione di un marketing onnisciente, costruito su metriche e funnel lineari, e mostra come il settore si sia intrappolato per vent’anni in una realtà parallela, dimenticando la psicologia delle persone che avrebbe dovuto comprendere.
Parleremo di identità, coerenza, responsabilità.
Il nostro sarà un confronto diretto, senza filtri, tra la narrazione del marketing e la verità del mercato. Un invito a rimettere in discussione i modelli, a riallineare i team, a riscoprire la sostanza dietro la strategia.
Preparati a guardare il brand con occhi nuovi.
E a chiederti, una volta per tutte, se quello che stai costruendo parla davvero alle persone.
Terminate queste doverose premesse, non mi resta che augurarti buona lettura.
L’identità di marca torna al centro: in un contesto più maturo, diventa la chiave per creare connessioni solide e riconoscibili
Mordy, in una recente intervista hai detto che il vero problema per i team di marketing non è l’arrivo degli LLM, ma il fatto che per oltre vent’anni il settore abbia vissuto in una sorta di “realtà parallela”, ignorando la natura umana.
Come si è radicata questa disconnessione nel tempo, e quali sono stati i passaggi chiave che hanno permesso a questo modello di durare così a lungo, fino al momento in cui i consumatori hanno iniziato a prenderne coscienza?
In sostanza, quello che è successo è che Internet si è trasformato in una sorta di realtà artificiale, quasi come un grande show televisivo. Per anni i marketer si sono comportati come se tutto fosse perfettamente misurabile: vedevi l’utente arrivare da un punto, passare a un altro, poi a un altro ancora, e infine acquistare. Sembrava tutto tracciabile, tutto sotto controllo. E questa illusione di attribuzione diretta ha fatto credere al settore di poter prevedere e persino guidare il comportamento umano con precisione matematica.
Questo è accaduto nello stesso momento in cui il web stava maturando e con lui anche le aspettative delle persone. Ma quelle aspettative non avevano più nulla a che vedere con la realtà. Nessuno, nella vita reale, accetterebbe che un estraneo si presenti alla porta gridando “Compra il nostro strumento definitivo tutto in uno!”. Eppure online funzionava. Gli utenti si erano abituati a contenuti invadenti, promozioni aggressive, pubblicità iper-targettizzate. Era semplicemente “la normalità del web”. Finché non è diventato troppo.
A un certo punto, l’equilibrio si è rotto. Gli utenti hanno iniziato a cercare esperienze più autentiche, più conversazionali. È successo con piattaforme come TikTok, dove i contenuti apparivano più diretti e spontanei, e persino con Google, che ha iniziato a introdurre risultati più interattivi e personalizzati. È stato allora che le persone hanno detto: “Basta. Voglio qualcosa di vero”.
Questa nuova consapevolezza è nata da una generazione cresciuta interamente dentro Internet, che ne conosce i meccanismi e non si lascia più ingannare. L’utente è diventato più maturo, più critico, più attento. È una conseguenza naturale di qualsiasi evoluzione collettiva: quando una piattaforma o un sistema diventa parte integrante della vita quotidiana, prima o poi arriva il momento in cui il pubblico si risveglia. Ed è lì che tutto cambia.
Sostieni che per adattarsi davvero, le aziende devono prima “fare i conti con il passato”, riconoscendo errori e ammettendo le proprie responsabilità.
Ho notato che molti brand preferiscono reimpostare la loro strategia senza affrontare questa fase di autocritica. Credi che questa presa di coscienza possa aiutare a costruire fiducia autentica con il pubblico in un contesto dominato dagli LLM?
Sì. Le aziende tendono a ignorare il proprio passato. Fingono che gli errori commessi non esistano e che basti cambiare direzione per voltare pagina. Dicono: “Ok, ora facciamo X, Y e Z. Nuova strategia”. Ma cambiare strategia non cancella ciò che è successo prima. Se ieri un brand è stato aggressivo, manipolatorio o eccessivamente commerciale, deve riconoscerlo apertamente. Finché non ammette di aver agito così, non può davvero cambiare. Non si diventa un marchio diverso da un giorno all’altro solo perché lo si dichiara: serve un atto di responsabilità.
Quando lavoravo in Wix (una piattaforma online per creare siti web, tra le più diffuse al mondo NdR), ho visto quanto fosse importante ristabilire la connessione con il pubblico. Il punto di partenza è dire la verità: riconoscere dove si era, mostrare con fatti concreti che si è scelto un nuovo approccio, e farlo in modo autentico. È un processo lungo, non un’operazione di facciata. Ma la maggior parte dei brand non vuole aspettare. Cercano risultati immediati, KPI da mostrare nel trimestre successivo.
Il problema è che la memoria umana non funziona così. Le persone ricordano come sono state trattate. E finché un’azienda non dimostra nel tempo di essere davvero cambiata, la fiducia non si ricostruisce. Non basta dire “abbiamo imparato”: bisogna dimostrarlo, giorno dopo giorno. Solo così si può tornare a costruire un rapporto autentico con chi è dall’altra parte dello schermo.
I dati di BrightEdge mostrano che, nonostante la crescita rapida, l’AI search genera meno dell’1% dei referral, mentre l’organico resta il vero motore di traffico e conversioni.
Secondo te, perché i marketer continuano a rincorrere con urgenza i nuovi canali IA, nonostante la sproporzione evidente tra hype e risultati concreti?
Questa tendenza conferma esattamente il divario tra la narrazione dominante e la realtà dei comportamenti umani. I marketer oggi inseguono con entusiasmo i canali legati all’intelligenza artificiale perché li percepiscono come “il prossimo grande cambiamento”. È un nuovo paradigma, e nessuno sa davvero cosa diventerà. Ma siccome appare popolare e promettente, molti si precipitano ad adottarlo. Il problema è che la mentalità con cui lo fanno è ancora quella vecchia.
Nulla di ciò che accade ora è realmente nuovo. Il percorso dell’utente è sempre stato un intreccio complesso: si cerca un prodotto su Google, si guarda una recensione su YouTube, si confrontano i prezzi su Amazon, si torna su Google Shopping per verificare le offerte. Oggi in questo processo si inseriscono anche gli LLM, ma l’errore è continuare a ragionare in termini di attribuzione diretta, come se l’ecosistema fosse ancora lineare e prevedibile. In realtà, non lo è più.
Un esempio emblematico è NerdWallet. È un brand enorme, con un modello di business basato sull’affiliazione, che però non funziona più come prima. Hanno investito cifre importanti nel branding e in campagne televisive, ma la comunicazione tra i team – quello che gestisce la pubblicità e quello che si occupa dei contenuti online – non è coordinata. Le strategie non dialogano tra loro. E questo nonostante si tratti di un’azienda esperta e strutturata.
È un problema diffuso: le organizzazioni sono ancora intrappolate in silos, con reparti separati che lavorano su obiettivi differenti. Ma in un contesto dove il traffico organico cala, dove serve costruire nuovi canali e relazioni dirette con il pubblico, questa frammentazione non può più funzionare.
Oggi, più che mai, serve coerenza. Le aziende devono imparare ad allineare i propri team, integrare strategie e messaggi, creare un ecosistema unico in cui ogni parte sostiene l’altra. È l’unico modo per restare rilevanti in un mondo dove la tecnologia cambia, ma la psicologia delle persone resta la stessa.
Secondo te, il vero problema per un brand è scegliere il canale giusto o capire come creare un legame autentico e duraturo con il proprio pubblico?
Tutto parte dalla connessione: riuscire a entrare in risonanza con le persone. Ma non puoi entrare in risonanza se prima non hai capito chi sei. È sorprendente quanto spesso i brand saltino questa fase. Bisogna chiedersi: chi siamo? cosa facciamo? perché lo facciamo? che valore generiamo per chi ci segue o ci sceglie?
Prendiamo sempre NerdWallet: il loro vero punto di forza è la capacità di tradurre un linguaggio finanziario complesso in qualcosa di chiaro, trasparente e comprensibile. È questo ciò che li distingue. Ma se un brand come quello va a sponsorizzare eventi esclusivi di Wall Street, il messaggio non funziona: non parla al suo pubblico reale, quello delle persone comuni che vogliono capire meglio come gestire i propri soldi.
Il problema è che molti marchi non fanno questo lavoro di introspezione. Non definiscono davvero la propria identità, e così finiscono per inseguire qualunque canale sembri promettente: oggi TikTok, domani Google, dopodomani un’altra piattaforma. Senza una direzione chiara, ogni investimento diventa dispersivo.
Nel caso di NerdWallet, la mancanza di coerenza tra brand, spot televisivi e strategia digitale si riflette nei numeri: secondo i dati di Semrush, la loro visibilità organica è calata e per compensare stanno spendendo molto di più in pubblicità a pagamento. Il risultato è che ogni conversione costa sempre di più, e i margini si riducono. Quello che prima arrivava “gratis” ora costa dieci dollari, e il guadagno reale si riduce a un solo dollaro.
Quando un’azienda non ha un’identità chiara, ogni canale diventa più costoso e meno efficace. Ma quando invece esiste una connessione autentica con il pubblico, tutto cambia: la performance migliora, i costi diminuiscono, e i risultati si moltiplicano. È una leva economica reale, non solo comunicativa.
Il problema è che molti brand non se ne accorgono. Vedono il milione di dollari che guadagnano, ma non i due o tre milioni che potrebbero guadagnare se la loro identità fosse coerente e riconoscibile. La risonanza, quella vera, nasce dall’identità. E il suo valore si misura non solo in engagement o visibilità, ma in risultati concreti: soldi risparmiati, fiducia guadagnata, crescita sostenibile.
Abbiamo visto che la distinzione tra contenuti pensati per convertire e contenuti per costruire autorevolezza appartiene al “vecchio web”.
Quali sono, secondo te, gli errori più frequenti che i marketer commettono nel tenerle separate e quali pratiche concrete possono rendere i contenuti un percorso fluido capace di unire connessione e conversione?
A mio parere, uno degli errori più comuni è proprio quello di separare le due cose. In realtà, autorità e conversione fanno parte dello stesso processo. Quando si costruisce autorevolezza, si prepara il terreno per la vendita.
Se qualcuno sta leggendo, ascoltando o guardando un mio contenuto e io in quel momento propongo i miei servizi di brand marketing, non lo sto interrompendo con una vendita improvvisa. Gli ho già dato valore, gli ho già dimostrato competenza. A quel punto è più disposto ad ascoltarmi. È più aperto all’idea che io possa offrirgli qualcosa di utile.
Autorevolezza e conversione, quindi, non sono fasi distinte: si alimentano a vicenda. Funzionano come in qualsiasi dinamica di fiducia. È lo stesso meccanismo che porta una persona, davanti a due scatole di cereali, a scegliere la marca conosciuta invece di quella nuova. Non perché il prodotto sia necessariamente migliore, ma perché quel marchio ha già costruito un legame, una familiarità, una credibilità.
Costruire contenuti efficaci oggi significa fondere questi due livelli: offrire valore reale e allo stesso tempo guidare il pubblico verso un’azione. Quando un brand riesce a unire connessione e conversione, ogni messaggio diventa più naturale, più umano e più convincente.
Mordy, tu hai indicato come punto di rottura il momento in cui i brand hanno iniziato a considerare gli algoritmi come il vero pubblico, dimenticando le persone.
Ancora oggi molte grandi aziende producono contenuti di facciata, convinte di avere una strategia di brand quando in realtà fanno solo product marketing. Quali segnali concreti può osservare un’azienda per capire se è caduta in questa illusione?
È abbastanza semplice capirlo. Se in un’azienda i vari team lavorano ancora con obiettivi separati, significa che non esiste una strategia davvero unificata. È uno dei segnali più chiari. Quando i reparti operano in compartimenti stagni, magari addirittura in competizione tra loro, vuol dire che manca una visione condivisa del brand.
Un altro segnale evidente è quando la leadership non si assume la responsabilità di coordinare la narrazione complessiva. Se chi guida la strategia non lavora fianco a fianco con tutti i team per mantenere una voce coerente, allora non si sta costruendo un brand: si stanno solo producendo contenuti disarticolati.
Un marchio autentico nasce quando ogni reparto – dal SEO al social, dal marketing al prodotto – lavora per lo stesso obiettivo e, se serve, è disposto a sacrificare un KPI immediato per un risultato più ampio e duraturo. Se questo non accade, l’azienda è probabilmente intrappolata in una visione di breve periodo.
Prendiamo di nuovo NerdWallet: il team SEO non vuole pubblicare contenuti troppo “SEO-oriented”, mentre quello di brand punta tutto su campagne “di immagine” nei social e negli spot televisivi. Ognuno guarda solo i propri numeri: visualizzazioni, like, condivisioni, traffico. Ma questi sono indicatori superficiali.
Quando un’azienda misura il successo soltanto in termini di click o di engagement, senza chiedersi se quei contenuti stanno rafforzando davvero la relazione con il pubblico, significa che è caduta nell’illusione di parlare agli algoritmi invece che alle persone. È lì che il brand smette di evolversi e inizia semplicemente a produrre rumore.
In un tuo post su LinkedIn hai scritto che non ti interessa tanto la percentuale di traffico dagli LLM, ma piuttosto capire cosa accade prima che l’utente arrivi su Google e converta, perché magari ha visto il brand nell’LLM e poi lo ha cercato.
Perché, secondo te, i SEO si fissano su questi numeri invece di capire dove nasce davvero l’intenzione di acquisto?
Bisogna capire il funnel. Gli utenti possono usare un LLM come parte del loro percorso, ma non si fermano lì. I dati mostrano chiaramente che, dopo aver consultato un LLM, molti continuano a usare Google. Il problema è che si è creata una conversazione sbagliata, come se fosse una scelta tra l’uno o l’altro: o l’LLM o il motore di ricerca. Ma non funziona così.
Il funnel è sempre stato caotico. Non è mai stato lineare, eppure oggi ci comportiamo come se lo fosse, come se gli LLM avessero stravolto le regole del gioco. In realtà non le hanno cambiate: hanno semplicemente aggiunto un ulteriore livello di complessità. Hanno reso il percorso più olistico, ma il comportamento di fondo delle persone è lo stesso.
Un utente può guardare un prodotto su Amazon, poi cercarlo su Google, leggere opinioni su Reddit, e magari tornare indietro per confrontare i prezzi. Non si ferma mai in un solo punto. Questa è sempre stata la realtà, e gli LLM non fanno che metterla meglio a fuoco.
Il compito di un marketer è capire cosa succede prima e dopo. Non basta dire “le persone vogliono solo chattare con ChatGPT”: non è tutta la storia. Chi lavora nel marketing deve sforzarsi di ricostruire l’intera storia, di comprendere ogni passaggio del viaggio dell’utente, non solo una parte.
Il marketing riparte dall’identità (non dai trend)
Riconoscere se stessi prima di comunicare: è qui che inizia tutto, secondo Mordy.
Il branding, per lui, non è un esercizio di stile né una gara di visibilità, ma un processo di consapevolezza.
Ogni marchio ha una propria identità autentica, una voce che spesso resta sepolta sotto anni di strategie, metriche e campagne. Fare branding significa riportarla in superficie, ricordare perché l’azienda esiste e cosa la rende davvero unica agli occhi delle persone.
Quando un brand perde questo legame con la propria storia, reagisce come chi ha smarrito la memoria: cerca di reinventarsi in fretta, cambiando tono, immagine, linguaggio. Ma ciò che nasce da un impulso, non da una riflessione, genera solo dissonanza.
Il pubblico lo percepisce subito.
Nessuna pubblicità, nessun piano editoriale può nasconderlo.
Sì, perché la connessione è l’unico valore che resiste nel tempo.
Le emozioni superficiali si esauriscono, le esperienze autentiche no.
Un messaggio coerente, fondato su un’identità solida, crea risonanza. È lì che il brand smette di essere un logo e diventa una presenza riconoscibile, una voce che ispira fiducia.
In questa visione, il marketing non è più un gioco di algoritmi o di trend, ma un atto di verità.
Significa scegliere la coerenza invece della corsa ai numeri, la relazione invece della performance, la profondità invece della velocità.
È da qui che passa il futuro: dai brand che sanno chi sono, che non fingono, che non inseguono. Quelli che parlano alle persone, non alle piattaforme.
È questa la direzione che dobbiamo riscoprire.
E da cui, forse, il search marketing può davvero ricominciare.
#avantitutta
La focalizzazione sul brand autentico, più che sull’IA, è la vera sfida. La coerenza nella comunicazione è la chiave.
Mordy coglie nel segno: il brand senza identità è solo fumo. Investire in un messaggio vero paga, l’hype no.
Mordy colpisce nel segno. Il brand che non sa chi è, affoga nel rumore. L’IA è uno strumento, non una bacchetta magica per vendere fumo. La concretezza vince sempre.
Altro giro, altra corsa con il marketing che si perde. Se il tuo brand non ha radici solide, tutte le chiacchiere sull’IA non lo salveranno. La realtà è l’unica giudice.
Rifletto molto sulle parole di Mordy. Inseguire le tendenze è come inseguire ombre, mentre la vera essenza di un brand è il suo legame autentico con le persone. Non è forse questo il sogno di ogni vero imprenditore?
Verissimo, Veronica! Il valore sta nel costruire un legame autentico, non nell’inseguire effimere tendenze. Credo che ogni imprenditore desideri proprio questo.
Le mode passano, la sostanza resta. Se un brand non ha una proposta chiara, l’IA o qualunque altro trucco non lo salverà. Alla fine, la gente vuole cose concrete.
La disconnessione tra brand e cliente è evidente. L’aderenza alla realtà, non alle mode, definisce la performance duratura.
Ottima riflessione. Mi ritrovo nel concetto che il marketing debba tornare a dialogare con l’individuo, mettendo da parte le tendenze passeggere. Forse la vera sfida è riscoprire l’autenticità in questo scenario.
La solita retorica sul marketing “perso”. La gente compra per bisogni, non per discorsi aulici. Se il brand non soddisfa, è irrilevante. L’IA è solo un altro strumento, non la panacea. Il nocciolo resta: fai qualcosa di utile, altrimenti sparisci.
Verissimo! Il brand deve avere un’identità chiara, altrimenti si perde nel rumore. Come si recupera la connessione autentica?
Sono d’accordo con la riflessione sull’importanza di un’identità di brand forte. In un panorama così saturo, è facile che un messaggio si perda. Forse dovremmo tutti riflettere su come riconnetterci con il nostro pubblico in modo genuino, al di là delle tendenze passeggere.