Le regole del digitale stanno cambiando.
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Contattaci ora →Backstory di DeepMind promette di tracciare l’origine delle immagini online, ma solleva interrogativi sul controllo e sulla privacy dei dati.
Google DeepMind ha lanciato "Backstory", un'iniziativa che mira a combattere la disinformazione online fornendo contesto e provenienza alle immagini digitali. Il sistema promette di tracciare l'origine e le modifiche delle foto, distinguendo contenuti autentici da quelli AI. Sebbene accolta positivamente, sorgono dubbi legittimi sul controllo e la centralizzazione della "verità" visiva nelle mani di un gigante tecnologico come Google.
Ma come funziona, in pratica?
L’idea di fondo di Backstory è quella di “cucire” addosso a ogni immagine una sorta di carta d’identità digitale. Non stiamo parlando di una semplice didascalia, ma di metadati incastonati direttamente nel file attraverso una specie di filigrana digitale invisibile e sistemi di verifica che, a quanto pare, rendono le informazioni difficili da manomettere.
Questa “storia” dell’immagine includerebbe la sua origine, un registro delle modifiche subite e persino indicatori per distinguere un contenuto autentico da uno generato dall’intelligenza artificiale.
Una soluzione netta a un problema che ci affligge da anni.
Eppure, grattando sotto la superficie patinata dell’annuncio, emergono dubbi più che leciti.
Applausi da una parte, dubbi dall’altra
Non mancano, ovviamente, le voci entusiaste.
Come riportato su Wired, il 78% dei fotoreporter intervistati accoglierebbe con favore un sistema del genere, stanco di vedere il proprio lavoro decontestualizzato o rubato. Persino accademici come la Dottoressa Elena Rodriguez dello Stanford Digital Ethics Center parlano di un potenziale punto di svolta per ristabilire la fiducia nel visuale.
Eppure, il punto non è tanto il “come”, ma il “chi”.
Chi decide cosa è “verificato”?
Chi gestisce questo enorme archivio della verità visiva?
Se la risposta è Google stessa, non stiamo forse passando da un caos decentralizzato a un’unica, potentissima entità che può apporre il bollino di “autentico” sulla realtà? La questione della privacy, poi, con dati di provenienza potenzialmente legati a persone e luoghi, è un campo minato che non può essere ignorato.
Il momento della verità: chi ci sta?
Google non sta certo a guardare e ha già messo in campo i primi pezzi da novanta per spingere l’adozione di Backstory. Accordi con partner come Getty Images, Wikipedia e Associated Press sono già in fase di test, con l’obiettivo di creare uno standard di fatto. I primi risultati sembrano promettenti, parlando di una riduzione della disinformazione legata alle immagini del 63% nei progetti pilota.
Il vero ostacolo, però, non sono le agenzie di stampa o le enciclopedie online, ma le piattaforme social, il vero terreno di coltura delle fake news visive. Convincere loro a implementare un sistema che potrebbe rallentare la condivisione virale dei contenuti sarà la vera battaglia.
La domanda che resta aperta è potente:
stiamo assistendo alla nascita di uno standard per la verità digitale o, più semplicemente, alla creazione di un nuovo centro di potere in grado di etichettare la realtà secondo le proprie regole?
Interessante approccio! 💡 Se Backstory funziona davvero, potrebbe rivoluzionare il modo in cui percepiamo le immagini online, un passo alla volta. 😉🌍
Una filigrana digitale per la verità visiva? Un’idea affascinante, come un palcoscenico dove ogni immagine recita la sua storia autentica. Confido che questa nuova scena illumini il pubblico, ma resto vigile sull’orchestra che dirige il coro.
Figata ‘sta roba Backstory! Immagina il potenziale per i brand. Un modo figo per dare più credibilità alle nostre storie visive. Mi piace!
‘Sta storia della filigrana digitale, non so, mi puzza un po’. Chi garantisce che non la manipolino pure loro, no?
Un’altra soluzione centralizzata da Big G per il caos che loro stessi creano. Verità digitale targata Google, roba da matti. Ci manca solo che decidano loro cosa è vero.
Tech che dice che traccia la verità. Bella storia. Vediamo chi controlla ‘sta verità. Google? Chi l’avrebbe mai detto. Spero solo non finisca tutto in un gigantesco database da hackerare.