Una richiesta che mira a smantellare il presunto monopolio pubblicitario di Google, aprendo la strada a nuove dinamiche competitive e a una possibile rivoluzione nel panorama digitale.
Dopo una condanna per monopolio nel digital advertising ad aprile 2025, il Dipartimento di Giustizia USA ha chiesto formalmente a Google di vendere due asset chiave: AdX e DoubleClick for Publishers (DFP). La richiesta, presentata in un tribunale della Virginia il 6 maggio 2025, mira a smantellare il presunto monopolio di Google e ripristinare la competizione nel settore.
Google di nuovo sotto tiro: rischia di perdere i pezzi pregiati dell’advertising?
Allora, mettiti comodo perché la notizia che ti sto per raccontare è di quelle che fanno tremare i polsi, soprattutto se hai a che fare con la pubblicità online. Il Dipartimento di Giustizia americano, mica pizza e fichi, ha sparato una richiesta bella pesante: vuole che Google venda due dei suoi gioielli tecnologici nel campo dell’advertising, cioè AdX e DoubleClick for Publishers (DFP).
Questa mazzata è arrivata il 6 maggio 2025, dritta dritta in un tribunale federale della Virginia, come conseguenza di una condanna per monopolio che Google si è beccata ad aprile 2025. Sì, hai capito bene, un giudice ha stabilito che Google ha fatto la furba, monopolizzando illegalmente i mercati della pubblicità digitale.
E non è la prima volta che si trova in queste acque agitate, eh!
Già ad agosto 2024 era arrivata una batosta simile per le sue pratiche monopolistiche nel mercato della ricerca online, come descritto da TechPolicy.Press.
Insomma, la situazione si sta facendo parecchio calda per il gigante di Mountain View.
Ma cosa sono esattamente questi AdX e DFP che il governo vuole smantellare?
Immagina AdX (Ad Exchange) come una gigantesca piazza del mercato, un po’ come un’asta in tempo reale, dove chi ha spazi pubblicitari invenduti sul proprio sito (gli editori, come i giornali online o i blog) li mette a disposizione di chi vuole fare pubblicità (gli inserzionisti). DFP (DoubleClick for Publishers), invece, è la piattaforma che i siti web usano per gestire tutto il loro inventario pubblicitario, per organizzare e vendere questi spazi.
Capisci bene che, messi insieme, questi due strumenti sono il motore che permette a tantissimi produttori di contenuti online di guadagnare con la pubblicità. Il Dipartimento di Giustizia sostiene che Google abbia, diciamo così, “costretto” gli editori a usare AdX se non volevano perdere entrate, e che abbia legato AdX e DFP in modo un po’ troppo furbetto per favorire i propri prodotti.
Una mossa non proprio da manuale, se capisci cosa intendo.
E quindi, cosa comporterebbe questa “cura da cavallo” proposta dal Dipartimento di Giustizia?
Non si tratta solo di vendere AdX e DFP, amico mio.
La lista della spesa è lunga: vogliono anche impedire a Google di gestire piattaforme di scambio pubblicitario per ben 10 anni dopo la vendita di AdX. E non finisce qui: chiedono che Google apra l’accesso ai suoi strumenti pubblicitari, incluso il famosissimo AdWords, a sistemi di terze parti, e questo “a condizioni non discriminatorie”.
Te lo immagini?
Come se non bastasse, puntano a vietare a Google di usare i dati di prima parte raccolti da altri suoi prodotti – pensa a YouTube o Chrome – per scopi pubblicitari, come riportato da Digiday.
L’obiettivo dichiarato è chiarissimo: smantellare il monopolio di Google, togliergli i frutti delle sue presunte violazioni, far ripartire la competizione e assicurarsi che una cosa del genere non succeda più.
Una vera e propria rivoluzione, se ci pensi.
Ma Google, ovviamente, non sta a guardare e promette battaglia.
La difesa di google e i prossimi capitoli di questa saga legale
Di fronte a una richiesta del genere, ti aspetti una reazione forte, no?
E infatti Google non si è fatta attendere. Leigh-Ann Mulholland, che è la Vice Presidente degli Affari Regolamentari di Google, ha dichiarato senza mezzi termini che le proposte del Dipartimento di Giustizia “non hanno alcuna base legale” e, anzi, “danneggerebbero editori e inserzionisti”, come si legge su Mezha.Media.
Anzi, Google sostiene nei suoi documenti che smembrare AdX e DFP non sarebbe nemmeno fattibile dal punto di vista tecnico, perché queste tecnologie, a detta loro, non possono funzionare al di fuori dell’infrastruttura proprietaria di Google.
Un bel rompicapo, eh?
Google, dal canto suo, ha proposto delle alternative: aprire l’accesso alle aste di AdX per piattaforme terze, rendere disponibili le offerte in tempo reale ai concorrenti e introdurre una supervisione esterna per tre anni. Insomma, cercano di concedere qualcosa, ma senza arrivare allo smembramento.
E stai pur certo che Google ha già annunciato che farà appello contro la decisione del giudice Brinkema, anche se dovrà aspettare la fine di questa fase dedicata alle “punizioni”.
E quindi, cosa ci aspetta adesso?
Beh, i prossimi mesi saranno cruciali. La fase di definizione delle sanzioni è già in corso, con scadenze importanti come la chiusura della raccolta prove fissata per il 30 giugno 2025, la presentazione delle perizie degli esperti entro il 7 luglio, e la chiusura della fase di discovery per gli esperti il 27 agosto.
Il vero e proprio processo per decidere le sanzioni inizierà il 22 settembre 2025.
Ci sarà da tenere gli occhi aperti, perché una decisione finale su quale sarà la “punizione” di Google è attesa tra la fine del 2025 e l’inizio del 2026, secondo quanto riferito da ABC News.
Diciamocelo,
questa battaglia è solo un pezzo di un puzzle molto più grande: il governo USA sta cercando in tutti i modi di ridimensionare il potere di Google.
Pensa che in un’altra causa antitrust, quella relativa al mercato della ricerca, si sta addirittura chiedendo a Google di vendere il suo browser Chrome!
E tutto questo mentre Google deve anche navigare le acque, potenzialmente rivoluzionarie, dell’intelligenza artificiale, che potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui tutti noi usiamo la tecnologia e cerchiamo informazioni online.
Nonostante queste tempeste legali, Alphabet, la casa madre di Google, continua a macinare risultati finanziari robusti e a valere circa 2 trilioni di dollari sul mercato.
Una cifra da capogiro,
che fa capire quanto sia alta la posta in gioco.
Staremo a vedere come andrà a finire,
ma una cosa è certa: il panorama digitale potrebbe cambiare parecchio, e in fretta.