Tra promesse di risposte immediate e timori per il futuro del lavoro nel mondo della creazione di contenuti, le implicazioni del nuovo motore di ricerca di Google aprono scenari inediti
Google ha introdotto l'AI Mode, una trasformazione radicale nella ricerca online con risposte AI dirette. Sebbene prometta maggiore intuitività, preoccupa l'impatto sui siti web, con dati che mostrano un calo significativo dei click. La mossa impone un ripensamento delle strategie SEO e solleva interrogativi etici e di concentrazione del potere informativo.
Google stravolge la ricerca: arriva l’ai mode e niente sarà più come prima
Il modo in cui tutti noi cerchiamo informazioni online sta subendo uno scossone che non si vedeva dai tempi della nascita di Google stessa, parliamo del lontano 1998.
Google ha infatti messo sul piatto il suo AI Mode, una trasformazione radicale che, a detta loro, dovrebbe rendere la ricerca più intuitiva e potente.
Immagina di poter fare domande al motore di ricerca lunghe anche 14-18 parole, il doppio di quelle che usiamo di solito, e non solo a parole: potrai usare immagini, far capire il contesto, un po’ come chiacchierare con un assistente che capisce al volo.
Dietro le quinte, a far girare questa macchina complessa, ci sono tecnologie come Gemini 2.5 Pro per ragionamenti articolati e i nuovi chip Ironwood TPU, che promettono un’efficienza energetica tre volte superiore ai modelli precedenti, come descritto da PPC Land.
Sembra tutto molto bello, vero?
Ma c’è un “ma”, anzi, più di uno, soprattutto quando si tratta di capire chi ci guadagna davvero in questa rivoluzione.
Se da un lato la promessa è quella di risposte più dirette e complete, dall’altro c’è già chi storce il naso, e non a torto.
Pensa a chi vive di contenuti online: secondo i primi dati, l’introduzione delle cosiddette AI Overviews, quelle risposte generate dall’intelligenza artificiale che appaiono direttamente in cima ai risultati, ha già portato a un calo del 40% dei click verso i siti esterni, come riportato su Coalition Technologies.
Capisci cosa significa?
Meno visite, meno opportunità.
L’esperto SEO Marty Weiner non usa mezzi termini: “Il passaggio dai dieci link blu a risposte AI dinamiche richiede di ripensare completamente la strategia dei contenuti”. Non si tratterà più solo di parole chiave, ma di come far “digerire” le proprie informazioni a queste nuove intelligenze.
Le aziende, dal canto loro, non stanno a guardare: chi produce contenuti si sta già muovendo verso dati più strutturati, l’e-commerce punta tutto sugli “schema markup” dei prodotti e le attività locali devono curare ancora di più il loro profilo Google Business.
Addirittura, Google Cloud sta già collaborando con partner come GrowthLoop per permettere ai professionisti del marketing di usare agenti AI per creare percorsi cliente personalizzati direttamente dentro le piattaforme di analisi.
Tutto molto efficiente, per carità, ma la domanda sorge spontanea: non è che, a furia di riassumere e dare la “pappa pronta”, Google si stia mettendo un po’ troppo al centro della scena, diventando l’unico interlocutore e marginalizzando chi quei contenuti li crea con fatica e passione?
Tra promesse di democrazia informativa e il rischio del “grande fratello” digitale
E qui il discorso si fa ancora più spinoso, perché quando un colosso come Google introduce cambiamenti così radicali, le implicazioni vanno ben oltre la semplice tecnologia. L’Unione Europea, con il suo Digital Markets Act, ha già messo gli occhi su queste interfacce di ricerca AI, classificandole come “servizi gatekeeper”. Questo, in teoria, dovrebbe tradursi in maggiore trasparenza sulle fonti dei dati usati per addestrare le AI, parità di accesso per i modelli di intelligenza artificiale concorrenti e la possibilità per te, utente, di scegliere di non avere risultati personalizzati.
Belle parole, certo.
Ma come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli. C’è chi, come l’Human-Centered AI Institute di Stanford, avverte che affidarsi troppo a risposte preconfezionate potrebbe creare delle “monoculture intellettuali”, un appiattimento del pensiero critico. Dall’altra parte, i sostenitori di queste tecnologie parlano di una democratizzazione dell’accesso a informazioni complesse.
Ma siamo davvero sicuri che sia così?
Chi controlla veramente questi “guardiani del sapere”?
E la trasparenza sui dati di addestramento sarà reale o solo di facciata?
Il rischio, come evidenziato anche nel Google Cloud Next 2025 Wrap-Up quando si parla di nuove infrastrutture e capacità AI, è che il potere si concentri sempre più nelle mani di pochi, che decidono cosa vediamo e, di conseguenza, cosa pensiamo.
Questa trasformazione, per quanto accelerata, ricorda altri passaggi storici della rete, dalla supremazia delle directory all’algoritmo PageRank, fino all’era del “mobile-first”. Ogni volta, ci sono stati vincitori e vinti.
Ora, con Google che si prepara a integrare anche la ricerca visuale, fondendo la tecnologia di Lens con la capacità di ragionamento di Gemini, come annunciato sul blog ufficiale di Google, il rapporto tra noi e la conoscenza digitale è destinato a cambiare ancora. Resta da vedere se questo cambiamento porterà davvero a un accesso più equo e consapevole all’informazione, o se ci renderà semplicemente più dipendenti da un sistema che, diciamocelo, ha pur sempre i suoi interessi da difendere.
E tu, sei pronto a fidarti ciecamente o inizierai a porti qualche domanda in più?