Dietro le quinte del colosso di Mountain View emergono dubbi sulla gestione dei dati e sulle strategie per l’IA, mentre si attendono decisioni cruciali nel processo antitrust.
Un insider Google engineer contesta in aula le affermazioni sul legame tra qualità dei risultati di ricerca e comportamento utente. Le sue dichiarazioni, insieme a quelle su strumenti interni e sul vasto indice dati di Google, evidenziano il vantaggio competitivo per l'IA, portando il dibattito del processo antitrust sulle possibili sanzioni.
Le bordate di un “insider”: cosa non torna nei conti di Google?
Pare che in casa Google ci sia un po’ di maretta, e non per il solito aggiornamento dell’algoritmo che ci fa sudare sette camicie. Stavolta a parlare, o meglio, a “cinguettare” veleno è stato Ryan Moulton, uno che in Google ci lavora da ben 18 anni, e non in un angolino qualunque, ma nel team che si occupa proprio del ranking dei risultati di ricerca.
Immagina un po’, uno che conosce i segreti della bottega decide di vuotare il sacco, o almeno una parte, su X (sì, il vecchio Twitter, chiamalo come ti pare).
E cosa ha detto di così sconvolgente?
Beh, ha messo in discussione le affermazioni fatte in tribunale durante il processo antitrust del Dipartimento di Giustizia USA contro Google. In pratica, Moulton ha sbottato dicendo che, al contrario di quanto sostenuto in aula:
“Quando i risultati di ricerca sono peggiori, le persone tentano meno task. Quando sono migliori, ne tentano di più”
come riportato da Search Engine Roundtable
Capisci?
Non stiamo parlando di noccioline, ma di come la qualità (o la non qualità, a quanto appare) dei risultati influenzi direttamente quello che tu e io facciamo online.
E non è la prima volta che il lavoro di questo ingegnere finisce sotto i riflettori in una causa legale contro il gigante di Mountain View.
Viene da chiedersi: ma allora, chi sta raccontando la storia giusta in tribunale?
E qui la faccenda si fa ancora più interessante, perché le parole di Moulton non sono solo uno sfogo estemporaneo. Lui contesta proprio l’idea che le variazioni nelle metriche di coinvolgimento degli utenti siano “piccole”, come qualcuno vorrebbe far credere.
Al contrario, sostiene che quei numeri, che a prima vista potrebbero sembrare insignificanti, rappresentano in realtà cambiamenti enormi nel comportamento delle persone.
Si riferisce a ricerche interne di Google, quelle che noi comuni mortali non vedremo mai, che dimostrerebbero una correlazione diretta tra la qualità dei risultati e il numero di ricerche, o “task”, che gli utenti avviano.
Una bella gatta da pelare per chi continua a dire che il dominio di Google non ha danneggiato l’innovazione, non trovi?
Ma se le cose stanno così, come fa Google a presentare una realtà diversa?
E soprattutto, come funzionano davvero questi famigerati sistemi di ranking che decidono cosa vediamo e cosa no?
Dietro le quinte di Google: tra tabelle “innocue” e la fame di dati per l’IA
A proposito di sistemi interni, c’è un altro aspetto che è venuto a galla durante questo processo e che, diciamocelo, fa un po’ sorridere (amaramente, s’intende). Parliamo di Navboost, uno strumento che Google usa per tracciare i click degli utenti sulle query. Ebbene, secondo quanto dichiarato da un ex Distinguished Engineer di Google, il Dr. Eric Lehman, Navboost non sarebbe “machine learning”, ma semplicemente ‘una gigantesca tabella… questa query ha ottenuto due click, quella query tre’, come descritto da Search Engine Roundtable in un altro pezzo sulla vicenda.
Ora, tu ci credi che uno strumento che gestisce una mole di dati del genere sia solo una “semplice tabella”? Suona un po’ come dire che una Ferrari è solo un ammasso di ferro con quattro ruote.
La verità è che questa distinzione, apparentemente tecnica, ha un peso enorme nelle argomentazioni antitrust, perché serve a Google per sminuire il vantaggio competitivo che deriva dal possedere e analizzare questa enorme quantità di dati.
E qui casca l’asino perché i procuratori del Dipartimento di Giustizia stanno puntando il dito proprio sull’intelligenza artificiale (IA). Sostengono, e come dargli torto, che l’immenso indice di ricerca di Google – parliamo di oltre 100 milioni di gigabyte di dati dal web! – dia all’azienda un vantaggio incolmabile per addestrare i suoi modelli di IA, come il tanto chiacchierato Gemini. Come evidenziato in un articolo della NPR (https://wbhm.org/npr-story/why-googles-search-engine-trial-is-about-ai/), c’è la seria preoccupazione che il monopolio di Google sulla ricerca possa “avere un effetto diretto sullo sviluppo dell’IA generativa”, impedendo ai rivali di accedere a dati di addestramento equivalenti.
Dati che, secondo GrayCyan.us, sono fondamentali in un mercato dove Google detiene già il 90% della ricerca globale, creando un “ciclo autoalimentante” in cui più dati ha, più diventa dominante.
Ma allora, se la situazione è così chiara, cosa si può fare concretamente per rimettere un po’ di equilibrio in questo Far West digitale?
Sanzioni o pannicelli caldi? Il futuro di Google appeso a un filo (e alle solite beghe tra “esperti”)
E qui veniamo al dunque, perché dopo che un giudice, tal Amit Mehta, ha già dichiarato Google un monopolista all’inizio del 2024 (come discusso su Truth on the Market), ora si tratta di decidere la “cura”. E, come puoi immaginare, il dibattito è più acceso che mai.
Da una parte, c’è chi vorrebbe misure draconiane, come vietare a Google i tanto discussi contratti per essere il motore di ricerca predefinito su smartphone e browser, o addirittura obbligarla a concedere ai competitor l’accesso al suo indice di ricerca, come si legge nel documento ufficiale del Dipartimento di Giustizia (https://www.justice.gov/atr/media/1392601/dl).
Alcuni stati USA, come specificato in un altro documento ufficiale (https://www.tn.gov/content/dam/tn/attorneygeneral/documents/pr/2025/2025-3-google.pdf), spingono anche per restrizioni sul trattamento preferenziale che Google riserva ai propri servizi su Chrome e Android.
Dall’altra parte, però, ci sono gli “esperti” (e qui le virgolette sono d’obbligo, perché ognuno tira l’acqua al suo mulino) che mettono in guardia da interventi troppo drastici, paventando addirittura un freno agli investimenti nell’intelligenza artificiale. La situazione ricorda un po’ il famoso caso U.S. contro Microsoft degli anni ’90, ma con l’aggiunta della complessità dell’IA che rende tutto ancora più ingarbugliato.
La vera domanda, però, è: queste “cure” basteranno a scalfire il potere di un colosso come Google, o saranno solo l’ennesimo pannicello caldo?
Le esternazioni di un ingegnere come Moulton, che rompe il muro di omertà dall’interno, sono un segnale che forse qualcosa sta cambiando, o sono solo gocce in un oceano di interessi miliardari?
Staremo a vedere, ma una cosa è certa: la partita è ancora tutta da giocare, e per noi che lavoriamo ogni giorno con la visibilità online, capire queste dinamiche è fondamentale.
Tu che ne pensi?